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Infolampo: Istat – Giornali

L’Istat non può essere al servizio del governo
Dura presa di posizione della Flc Cgil dopo l’incontro tra la sottosegretaria Castelli e il presidente
dell’istituto Alleva. Sinopoli: “L’autonomia è sancita dalla giurisprudenza e dalla peculiarità della
ricerca scientifica”
L’Istat non può essere al servizio del governo in carica. La ricerca deve essere libera e autonoma. Dura
presa di posizione della Flc Cgil che commenta così l’esito
dell’incontro al Mef tra la sottosegretaria al ministero
dell’Economia e delle Finanze, Laura Castelli e il
presidente dell’Istat, Giorgio Alleva, per, come annunciato
in un comunicato stampa dalla stessa sottosegretaria:
“Fare il punto sul processo di innovazione portato avanti
dall’Istituto e sulla sinergia necessaria da mettere in atto
con la politica per il raggiungimento degli obiettivi del
contratto di Governo”.
“Si tratta di affermazioni gravi – dichiara in una nota il
segretario generale della Flc Cgil, Francesco Sinopoli –
che minano alla base l’indipendenza dell’Istituto”. “L’Istat
è un ente di ricerca e la sua funzione è tutelata dalle norme
di legge e dai regolamenti europei in materia di rilevazioni
statistiche. Autorevolezza e indipendenza sono
riconosciute da sempre e non può esserci alcuna ‘sinergia’ fra la conduzione di un ente terzo come l’Istat
e il governo di turno”, prosegue Sinopoli.
“Dalle parole della sottosegretaria Laura Castelli, tuttavia, si percepisce una volontà di rendere subalterno
l’Istituto agli interessi dell’esecutivo in carica. Ribadiamo che in nessun modo un governo, di qualunque
colore, può interferire con un istituto come l’Istat, la cui autonomia è sancita dalla giurisprudenza e dalla
peculiarità della ricerca scientifica, e i cui obiettivi istituzionali sono appunto quelli di attuare il
Programma nazionale di statistica approvato dal Parlamento riconducendo le sue rilevazioni, tra le quali i
dati macroeconomici del Paese, all’interesse dei cittadini rappresentati in Parlamento”, aggiunge il
sindacalista.
“Auspichiamo che la ministra Bongiorno, titolare del dicastero per la pubblica amministrazione a cui è
assegnata la vigilanza sull’Istituto, rivendichi e difenda l’autonomia istituzionale dell’Istat,
riaffermandone i principi. Nelle prossime settimane infatti, il Consiglio dei ministri, su proposta della
ministra della pubblica amministrazione, dovrà iniziare il percorso per la designazione del presidente
dell’Istituto, che deve avere il parere positivo dei due terzi dei componenti delle commissioni Affari
costituzionali di Camera e Senato”, scrive Sinopoli.
“Chiediamo ai vertici dell’Istat, alla ministra della pubblica amministrazione Giulia Bongiorno e al Mef,
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Ottanta anni fa le leggi razziali

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Il problema dei giornali con le dichiarazioni dei politici
Il giornalismo deve indignarsi o stendere un velo pietoso? Le risposte di Mattia Feltri, Arianna Ciccone,
Luca Sofri e Stefano Feltri.
di Anna Momigliano
In mancanza di una parola migliore, chiamiamola “annuncite”: un politico annuncia qualcosa di terribile o
assurdo, e tutti i media che si concentrano su quello. Non è un fenomeno nuovo, ma in queste settimane
ha assunto proporzioni epiche, vista la guerra tra Salvini e Di Maio a chi la sparava più grossa (ha vinto
Salvini). Censiamo i rom. Censiamo i raccomandati. Chiudiamo i porti. Mezz’ora di internet gratis.
Sanatoria sulle cartelle esattoriali. Se siete sui social, o se vi capita anche solo di dare un’occhiata alle
prime pagine dei giornali, sapete che ogni giorno ce n’è una, che sulla stampa non si parla (quasi) d’altro.
Come dovrebbero comportarsi i giornali davanti a questa ondata “dichiarazioni shock (cit)”? Facciamo
bene a dare spazio a queste cose, a indignarci, oppure faremmo meglio a non alimentare la polemica?
Alcuni avvertono che le critiche indignate sono parte del problema, più che della soluzione, meglio
stendere un velo pietoso. È una posizione che si regge su tre elementi. Primo, dando peso alle
dichiarazioni dei politici si finisce per amplificare la loro propaganda, si fa il loro gioco. Secondo, meglio
giudicarli in base a ciò che fanno, e non su quello che dicono, anche perché certe cose tanto non si
possono fare (Salvini vuole chiudere i porti? La competenza non è sua. Vuole censire i rom? È
incostituzionale). Terzo, l’indignazione è un’arma a doppio taglio, va centellinata, perché alla lunga dà
assuefazione: se siamo perennemente disgustati, non ci prenderà più sul serio nessuno. Tutte osservazioni
sensate, figlie della scottatura che ci siamo presi con Berlusconi, quando lui la sparava grossa e le sue
boutade dominavano il dibattito, con giornalisti e intellettuali che cadevano puntualmente nella trappola.
Eppure quest’idea che sarebbe meglio lasciare cadere non riesce a convincermi. La tentazione di
archiviare molte cose con un “tanto non si può fare” mi sembra frutto più di una pia illusione che del
realismo, perché, se è vero che esistono delle regole, abbiamo anche visto quanto sia facile aggirarle: i
censimenti etnici sono incostituzionali, ma i rom li abbiamo già parzialmente censiti nel 2008; chiudere i
porti non si può, ma Salvini ha trovato il modo di respingere due navi. Poi, certo, le esternazioni xenofobe
sono uno strumento di di propaganda, ma servono anche a tastare il terreno: se un ministro della
Repubblica dice «purtroppo i rom italiani ce li dobbiamo tenere» e nessuno gli dice niente, il messaggio
che arriva è che va bene così, che l’asticella si può spostare ancora più in basso. Allora, come la
mettiamo? Su questa storia confesso di avere solo domande e nessuna risposta, così ho deciso di
interpellare un po’ di giornalisti, con prospettive diverse. A tutti ho chiesto qual è il modo giusto, se un
modo c’è, per reagire a questa epidemia di annuncite.
Arianna Ciccone, fondatrice del Festival di Giornalismo, aveva sollevato la questione su Facebook. «Il
giornalismo non è due punti aperte virgolette e via con la dichiarazione del momento. Quello che
definisco dichiarazionismo. Prima di tutto dobbiamo chiederci se è una notizia e, se ha valore di notizia,
come va coperta. La contestualizzazione è quello che differenzia il giornalismo dal farsi megafono di
propaganda», aggiunge in una mail. Due esempi: «Salvini Ministro degli interni fa una dichiarazione sui
vaccini. Perché sarebbe una notizia? È una notizia se a dire che 10 vaccini sono troppi è il Ministro della
salute. Quella di Salvini è una dichiarazione acchiappa-attenzione». Invece l’uscita sulla scorta a Saviano
è una notizia «perché in quel caso ha a che vedere con il suo ruolo di Ministro». Il problema giornalistico
sta nel contesto in cui quella frase è stata rilasciata: «La giornalista in studio ad Agorà fa vedere al
Ministro un video in cui Saviano critica aspramente Salvini. E già dalla presentazione era chiaro l’intento
non giornalistico, ma di provocazione. Si stava cercando lo “scontro” (è come agitare il drappo rosso
davanti al toro). È questo il ruolo del giornalismo?». Nel suo post, Ciccone aveva anche sottolineato
come, secondo lei, alcune proposte sono irrealizzabili e vanno trattate come tali. Quando le ho espresso i
miei dubbi su quest’attitudine del “tanto non si può fare”, mi ha risposto: «Non bisogna lasciar perdere,
ma spiegare, contestualizzare e soprattutto non cedere: è vero che hanno respinto due navi, ma è
altrettanto vero che nel frattempo sono sbarcate più di 1000 persone. Allora “Chiudiamo i porti” si
capisce che è una semplificazione propagandistica. Il giornalismo è racconto della complessità».
Conclusione: «Il giornalismo basato sul dichiarazionismo è una resa, la confessione che in fondo i media
non hanno una loro agenda e sono costretti a inseguire l’agenda dettata dai politici».
Mattia Feltri, l’editorialista de La Stampa, è in preda ai dubbi: «È una domanda senza risposta e non sono
sicuro di fare la cosa giusta», mette le mani avanti. «Se inseguiamo le cretinate di Salvini ogni giorno il
problema non è tanto che facciamo il suo gioco, ma che non facciamo il nostro lavoro di giornalisti. Per
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