Da Infolampo: Pensioni – Punir
Pensioni con svista in Fvg: c’è chi ci rimette fino a 30
euro al mese
Da quando l’Inps non invia a casa il modulo annuale una su 10 è sbagliata. Gli errori più frequenti sono
il mancato inserimento di assegni familiari e quattordicesima. Lo Spi Cgil ha avviato una serie di
controlli ravvisando errori mediamente nel 10 per cento dei casi presi in esame, con punte che
raggiungono anche il 28 per cento in provincia di Pordenone.
Pubblicato il 02 feb 2017 da mrssaggeroveneto.gelocal.it
Sbagliata una pensione minima su dieci e a rimetterci è l’ex lavoratore perché da tre anni l’Inps non invia
più a casa il vecchio cedolino, che ormai si chiama Obis M, e –
complice lo scarso controllo del titolare dell’assegno –
integrazioni e adeguamenti vanno nel dimenticatoio.
Si tratta soprattutto di assegni familiari e quattordicesime
mensilità non conteggiate. La platea dei possibili interessati in
Friuli comprende 131 mila 116 persone, pari al 35 per cento dei
372 mila 999 pensionati della regione (dati Istat 2014).
Vittime delle sviste dell’Inps sono le pensioni inferiori ai mille
euro lordi. Iscritte in questa fascia di reddito a Udine ci sono 61
mila 451 persone (il 37 per cento), a Pordenone 32 mila 160 (37
per cento), a Gorizia 14 mila e 21 (31 per cento) e a Trieste 23
mila 484 (30 per cento). L0 Spi Cgil ha avviato una serie di
controlli ravvisando errori mediamente nel 10 per cento dei casi
presi in esame, con punte che raggiungono anche il 28 per cento in
provincia di Pordenone.
Il patronato di San Vito al Tagliamento ha spedito circa 400 inviti ad altrettanti pensionati, di questi 219
hanno affidato il mandato di patrocinio. In 46 casi (il 21 per cento) è stato riscontrato un errore che ha
consentito complessivamente di recuperare 24 mila 385 euro. In 32 casi l’errore era legato al mancato
adeguamento dell’assegno familiare, nove le domande di maggiorazione sociale, quattro mancati
pagamenti della quattordicesima e una domanda di ricostituzione per integrazione al minimo.
Ad Azzano Decimo i rimborsi sono stati 14 su 50 controlli, il 28 per cento. A Udine il campione ha
coinvolto 250 persone e gli errori sono stati 15, pari al 6 per cento.
«Da quando l’Inps ha iniziato a tagliare, peraltro in maniera ridicola se guardiamo gli importi recuperati,
il cedolino pensione non arriva più a casa – sottolinea il segretario organizzativo dello Spi Cgil di Udine,
Enrico Barbieri -. La comunicazione prima era mensile, poi annuale e adesso non c’è più.
O meglio, il pensionato può verificare l’Obis M sul sito dell’Inps, ma il 65 per cento degli ultra 65enni
non usa il computer e neppure internet. Fra l’altro le modalità imposte dal sito dell’Inps rendono a tutti
complicato vedere il cedolino pensione, basti pensare che se non viene utilizzato per tre mesi, il pin
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La Carta dei diritti
arriva in Parlamento
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“Punir”, l’ossessione contemporanea secondo Didier
Fassin
Frustrazioni e insicurezze sono diventate l’alibi per giustificare la voglia di gogna. Dando per scontato
che infliggere enormi sofferenze, sia efficace
di Giorgio Fontana
Il 16 luglio 2015 Obama compì un gesto storico: la prima visita di un presidente americano in una
prigione federale. Dopo aver parlato con sei persone ristrette, disse che gli errori da loro commessi in
infanzia e gioventù «non erano troppo diversi da quelli che ho fatto io e da quelli che hanno fatto molti di
voi. La differenza è che loro non hanno avuto le strutture di sostegno, le seconde possibilità, le risorse che
li avrebbero resi in grado di superare tali errori».
In questa frase c’è l’onestà di un uomo che riconosce l’ingiustizia sociale alla base della diffusione del
crimine; ma non solo. Cela anche un tentativo di rompere la distanza assoluta che vogliamo porre fra noi
e chi ha compiuto un reato. È lungo questa falda che si sviluppa la riflessione di Didier Fassin, noto
antropologo francese e autore del recentissimo Punir (Seuil 2017): un breve saggio che indaga le “ragioni
di un’ossessione contemporanea”.
Il momento punitivo
Negli ultimi decenni abbiamo assistito a un’evoluzione della sensibilità verso le illegalità e a un’azione
politica più decisa sul tema della sicurezza: un “momento punitivo”, scrive Fassin, dove «punire è
diventato il problema. Questo a causa del numero di individui che isola o mette sotto sorveglianza, a
causa del prezzo che fa pagare alle loro famiglie e alle loro comunità, a causa del costo economico e
umano che determina per la collettività, a causa della produzione e riproduzione di diseguaglianze che
favorisce, a causa della crescita della criminalità e dell’insicurezza che genera, e infine a causa della
perdita di legittimità che risulta dalla sua applicazione discriminatoria o arbitraria».
Ciò ha innescato un diffuso populismo penale: il passaggio dello Stato sociale allo Stato giudiziario, il
bisogno costante di capri espiatori, l’odio come base dell’ordine, la delegittimazione del garantismo, e più
in generale una politica di “tolleranza zero”. Basta guardare ai dati sulle carcerazioni. Il caso-tipo restano
gli Usa: nel 1970 200 mila persone erano in prigione, mentre oggi sono 2,3 milioni. Ma il fenomeno è
globale: negli anni Novanta il numero di carcerati triplica in Repubblica Ceca, raddoppia in Italia e in
Olanda, e il trend prosegue nel decennio successivo (+29% in Asia, +59% in Oceania, +15% in Africa).
Alla luce di tutto questo, Fassin si propone di «interrogare le fondamenta dell’atto di punire». Attraverso
tre domande: cos’è punire? Perché puniamo? Chi puniamo?
Cos’è punire?
Secondo la definizione classica del filosofo H.L.A. Hart, il gesto di punire comporta una legittimità
morale – è diretto all’autore reale dell’infrazione reale – e legale – è affidato a un’autorità esterna e
riconosciuta. Fassin cerca di decostruire questa tesi. Il primo sospetto è che non è così semplice
distinguere fra punizione e ritorsione. Anzi, mai come oggi assistiamo a un’inquietante confusione fra
spirito di giustizia e spirito di pubblica vendetta. Fassin si sofferma in particolare sugli episodi di abuso
poliziesco ovunque nel mondo: il punto è che le forze dell’ordine non vedono nel campionario di insulti,
controlli ingiustificati e violenze una forma di ritorsione, ma una dinamica punitiva legittimata dal potere
e dal discorso pubblico. Inoltre, diamo per scontato che punire sia infliggere sofferenza all’autore del
crimine: ma Fassin osserva che quest’idea non è un universale antropologico e non è detto che sia la
scelta più utile per la società.
In origine il castigo era legato al campo concettuale del debito: si trattava innanzitutto di restituire
qualcosa alla vittima. È solo con la “dimensione dolorista” del cristianesimo tardomedievale che «una
nuova rete semantica si costruisce nel linguaggio della colpa, della pena giusta e dell’afflizione meritata».
Il che non significa che nel mondo antico non esistesse la vendetta: ma cadeva appunto in un dominio
privato ed emotivo. Il passaggio dalla logica della riparazione a quella della retribuzione – tanta colpa,
tanta sofferenza arrecata in cambio – cancella il lato comunitario dal discorso giuridico. Non è un caso
che proprio in questo periodo si diffondano le prigioni.
Perché puniamo?
Più di dieci milioni di individui sono incarcerati oggi nel mondo: eppure vi sono serie ragioni per dubitare
che questo sia un rimedio efficace. In molti stati, come il Canada, si osserva che la diminuzione dei reati
non è legata all’aumento di ristretti o di polizia per le strade. Inoltre, la prigione è un luogo dove
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