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Da Infolampo: Verso lo sciopero nazionale, 2 Aprile e la Libia

fisco-2016-02-sciopero-generale-bigVerso il 2 aprile: «Il tempo è scaduto, la parola alla piazza»

La voce dei nostri lettori sulla mobilitazione per cambiare la Fornero. “Andrò in pensione a 68 anni”. “Per tre mesi ho perso tutte le salvaguardie”. “42 anni di contributi? È impossibile”. “Lavoro con i disabili, ma tra un po’ loro seguiranno me…”

di Fabrizio Ricci Che il tema pensioni sia uno di quelli che tocca direttamente e nel profondo gli interessi delle persone, incrociando la rabbia di molti, è un dato di fatto. Lo testimoniano anche i numerosi commenti e messaggi ricevuti dalla nostra redazione dopo l’annuncio della mobilitazione unitaria dei sindacati, il prossimo 2 aprile, con manifestazioni territoriali in tutto il paese per chiedere al governo (che non ha mai aperto il confronto su questo, come su altri versanti) di “cambiare la riforma Fornero” e “ricostruire un quadro di solidarietà tra i lavoratori”.

Lavoratori come Giulio, che – ci scrive – “se le cose non peggioreranno”, andrà in pensione a 67 anni e 11 mesi. “Ho 59 anni – racconta – e ho versato 36 anni di contributi, probabilmente sarò soggetto al sistema contributivo, ma vedo ex compagni di scuola che hanno tre anni più di me e si godono la lauta pensione retributiva. Quando mi incontrano mi dicono: ma tu sei giovane!”. Lavoratori come Mario, 38 anni di servizio in Poste Italiane: “La professoressa Fornero ha cancellato i miei diritti con un colpo di spugna – si sfoga – e per tre mesi ho perso tutte le salvaguardie possibili. Per di più – aggiunge – allo Stato non importa nulla il fatto che per 32 anni io abbia fatto volontariato per la Croce Rossa. È una vergogna”.

Un’altra testimonianza significativa è quella che ci ha fatto pervenire Rossana: “Lavoro in un centro diurno per disabili da 29 anni, ne ho 53 – ci dice –. Se aspetto i 67 anni per la pensione, loro seguiranno me… e il mio, cari signori, di sicuro è lavoro usurante…”. 


La rabbia è grande anche per un altro Giulio, che vuole raccontare la sua storia: “Ho 59 anni e ho iniziato a lavorare il 4 luglio 1973 – racconta – sono riuscito a cumulare 36 anni di contributi, lavorando nel privato, ma non tutti mi sono stati pagati. Da agosto 2014 sono disoccupato e mi attendono 9 anni senza stipendio, né pensione. Penso che per moltissimi come me sia impossibile cumulare 42 anni di contributi. Troviamo una soluzione”.

Una soluzione che, effettivamente, serve per tante persone. E forse proprio per questo Paolo accoglie quasi con sollievo la mobilitazione: “L’importante è esserci – ci scrive – per protestare contro una legge che costringe le persone di 63-64 anni a lavorare quando c’è una forte disoccupazione giovanile, e non

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Sul rebus libico chiedere a Sallustio

Già lo storico romano narrava della rivalità e ostilità fra l’ovest – al tempo Cartagine – e l’est di Cirene, divisi dal deserto della Sirte. Roma tenne divise le due Province, e tra esse Diocleziano stabilì il confine tra imperi d’Oriente e Occidente. Lo Stato è un’invenzione recente, coloniale, poi tenuto insieme da un dittatore. La Storia non si può esorcizzare 

di Claudio Salone

“All’epoca in cui i Cartaginesi regnavano sulla maggior parte dell’Africa, anche gli abitanti di Cirene erano prosperi e potenti. Tra le due città si estendeva un territorio completamente ricoperto da sabbie, privo di fiumi e di monti che potessero segnare un confine. Questa situazione cagionava eterne lotte fra i due popoli. Si combatté a lungo per terra e per mare, con esiti alterni e con reciproco indebolimento, tanto da far temere a entrambi i contendenti di diventare preda di un terzo. Fatta perciò una tregua, vennero a patti: si stabilì che, fissati giorno e ora, emissari delle due città partissero dalle rispettive mura patrie, gli uni e gli altri correndo verso il territorio nemico. Là dove si fossero incontrati si sarebbero fissati per sempre i confini. Da Cartagine si mossero due fratelli chiamati Fileni, i quali corsero in minor tempo più spazio che i due di Cirene, non si sa se per inettitudine di questi o per puro caso. Peraltro, su quella vasta e sterile pianura la fanno da padroni, non altrimenti che in mare, alcuni venti burrascosi, che, innalzando dal suolo in mulinelli infocati densi turbini di sabbia, accecano e stordiscono il viandante, fino ad impedirne il cammino. I Cirenesi, vedendosi sopraffatti e temendo di riceverne castigo una volta tornati in patria, cominciarono ad accusare i Cartaginesi di essere partiti prima; insomma, fecero di tutto per intorbidare le acque e per non arrendersi alla sconfitta. I Cartaginesi acconsentirono allora a stringere nuovi accordi, purché fossero equi. I Greci di Cirene proposero quindi che, se i Fileni volevano fissare i confini di Cartagine così lontano dalla loro città, dovevano immolare se stessi, seppellendosi vivi proprio su quei confini. Se così non avessero fatto, i Cirenesi sarebbero stati liberi di avanzare a loro piacimento. I Fileni accettarono e donarono la loro vita alla patria, facendosi seppellire vivi. In quello stesso punto i Cartaginesi elevarono are dedicate ai fratelli Fileni e decretarono loro altri onori in patria.”

(Sallustio, Bellum Jugurthinum, 79)

Questo suggestivo excursus storico-leggendario di Sallustio, in cui, una volta tanto, i Cartaginesi sono visti da un Romano in una luce diversa dalla liviana perfidia plus quam punica, ci interpella ancora oggi con la sua attualità.

Entrare nel ginepraio libico senza dare un’occhiata ai libri di storia è alquanto rischioso, così come lo è parlare di una Libia quasi fosse la Francia o una qualunque altra nazione europea. La Libia, come tanti pseudo stati-nazione creati dalle potenze coloniali tra la seconda metà dell’800 e la prima del ‘900, è invece un’invenzione recente (poco più di un secolo), esemplata dai colonizzatori italiani da una lettura retorica e mitizzante della presenza di Roma in quei territori e poi tenuta assieme dalla ferocia di un dittatore.

Peraltro la stessa Roma aveva ben chiara le diversità di quella vasta area semidesertica del Nordafrica, tant’è che essa fu tenuta distinta in due province, l’Africa Proconsularis a ovest e la Cirenaica, assieme a Creta, a est.

L’Ara degli eroici fratelli Fileni, collocata a Ras al-A’ali (Ras Lanuf) e che un arco eretto in epoca fascista commemorava ancora fino a pochi anni fa, segnava e continua a segnare una cesura politica e culturale molto forte.

È da lì che passò poi il confine voluto da Diocleziano tra impero romano d’occidente e impero romano d’oriente. A Leptis Magna, la monumentale città tripolitana, di cui Tripoli è l’erede, fino alla conquista araba si parlava il latino e, ben oltre il V secolo d.C., ancora il punico, la lingua dei Cartaginesi, mentre a Cirene ha sempre dominato il greco. L’importanza e la persistenza di tale discontinuità è testimoniata anche dalla Tavola Peutingeriana (copia del XIII secolo di una carta romana ) dove le “Are Philenorum” sono ancora i “fines affrice et cyrenesium”.

Da lì iniziavano e finivano le signorie dei Fatimidi d’Egitto e degli Ziridi di Tunisi e neppure il successivo Impero ottomano costituì in un’unica entità regioni così differenti tra loro, ma lasciò intatte le fisionomie della Cirenaica e della Tripolitania e il vuoto intermedio della Sirte, il vero “scatolone di sabbia” di giolittiana memoria.

Il governo dei Senussiti, succeduto nel secondo dopoguerra al dominio coloniale italiano, scelse non a caso il nome di “Regno Unito di Libia” ed ebbe due capitali, Tripoli e Bengasi.

Perché stupirsi dunque delle odierne difficoltà a mettere d’accordo i “governi” di Tripoli e di Tobruk? In

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