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Infolampo: Donne – Figli

25 novembre, una giornata contro la violenza alle donne
Trecentosessantacinque giorni di violenze: in casa, in strada, al lavoro. Mai “storie a sé”, in qualche
modo eccezionali. Perché non c’è eccezione se ogni tre giorni una donna viene uccisa. Mobilitazione
nazionale per dire e ripetere: ora basta
di Silvia Garambois
65 donne uccise da gennaio a settembre, un numero enorme di donne picchiate, stuprate, ridotte in fin di
vita. Fino a che alla guida del Tg2 c’era Ida Colucci un “contagiri”
dava conto sullo schermo dell’avanzare del numero delle donne
morte ammazzate per mano del loro compagno: idea forse
discutibile, ma che obbligava a non considerare mai queste
vicende come “storie a sé”, in qualche modo eccezionali; non c’è
eccezione se ogni tre giorni una donna viene uccisa. E se ci sono
giorni in cui, dal nord al sud, la violenza esplode incontenibile.
Incontenuta.
Il 25 novembre è la giornata che l’Onu ha voluto per
“l’eliminazione della violenza contro le donne”, perché è “una
violazione dei diritti umani”. Il diritto alla vita. Il diritto a non
dover essere delle “sopravvissute” di fronte alla violenza che si
scatena contro di loro. Il diritto a non essere discriminate. Un
giorno non basta, anche l’Onu lo sa: e il 25 novembre segna
l’inizio di sedici giorni di attivismo (fino al 10 dicembre, giornata
dei Diritti umani) per “sensibilizzare l’opinione pubblica e spingere ad agire per il cambiamento”. Perché
lui uccide lei se lo lascia, se non lo vuole più; se non corrisponde al suo desiderio, non è come lui
vorrebbe; se è depresso, malato, disoccupato e scatena la sua frustrazione su di lei… Per questo il
cambiamento è, innanzitutto, una questione culturale: contro l’idea di possesso, di controllo e di potere
dell’uomo sulla sua compagna, fino alla violenza, fino all’estremo.
Quest’anno nel nostro Paese non sono in programma grandi iniziative istituzionali, grandi manifestazioni
nazionali, ma un moltiplicarsi di eventi per ogni dove, fin nei più piccoli centri, sui muri i manifesti di
convegni e incontri, e manifestazioni, e concerti, e musica. Serve anche questo.
E non due settimane, ma un mese intero di iniziative che si accavallano per dire e per ripetere: basta.
Basta a una violenza che ha molti nomi, è l’acido scagliato sul bel volto della ex, sono le coltellate, il
cuscino usato per soffocare, ma è anche la persecuzione, lo stalking che avvelena la vita, sono gli
strattoni, i ceffoni, le botte, che fanno più male dentro che sulla pelle…
Pesa il fatto che i dati del Viminale raccontino che i delitti nel nostro Paese sono diminuiti, ma quelli
contro le donne no. Pesa che i centri antiviolenza della rete Di.Re. (una ottantina in tutta Italia) abbiano
dovuto accogliere l’anno passato quasi 14mila donne – assai più degli anni precedenti – per difenderle
Leggi tutto: http://www.radioarticolo1.it/articoli/2018/11/21/8456/25-novembre-una-giornata-contro-la-violenza-alle-donne
Smantellare l’accoglienza
colpirà prima le donne

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www.voxeurop.eu/it
Chi sta a casa con i figli?
Troppi padri che delegano l’attività di cura alle compagne, madri che restano troppo a lungo fuori dal
mercato del lavoro, un panorama disomogeneo di diritti e garanzie: ecco come e perché stanno
cambiando i congedi parentali in Europa.
di Laura Filios
In Europa, la casa, i figli, le pulizie e la spesa sono ancora un affaire molto femminile. A dirlo è uno
studio della Commissione europea secondo cui, in Europa, gli uomini lavorano in media per 39 ore la
settimana, mentre le donne 33. Allo stesso tempo però le donne spendono ben 22 ore non retribuite in
attività di cura e lavori domestici, mentre il monte orario della controparte maschile si ferma a 10. Una
situazione dettata sicuramente da stigmi culturali ma anche da una politica del lavoro che non è più al
passo con i tempi.
Da qui la necessità di un cambio di prospettiva, per uscire dallo schema dualistico uomo-donna e iniziare
a pensare partendo dal concetto più fluido di work-life balance, ovvero di equilibrio tra lavoro e vita
privata. Un ragionamento ancora più urgente nel momento in cui in famiglia entra in gioco uno o più figli.
Congedo di paternità, come funziona in Europa?
Ecco perché la Commissione europea nel 2017 ha avanzato laproposta di direttiva sull’equilibrio tra
attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza, in cui si suggerisce agli stati
membri, tra le altre cose, di adottare un minimo di 10 giorni di congedo di paternità obbligatorio.
Attualmente quasi tutti i paesi Ue garantiscono questo diritto, con una durata media di 11 giorni. Spiccano
la Slovenia con 30 giorni al 90% dello stipendio, la Romania con 15 al 100% (purché il padre segua un
corso sulla cura dei figli) e la Bulgaria con 15 giorni al 90%. Gli stati dei Balcani extra Ue sono lontani
dagli standard europei: il congedo di paternità è quasi ovunque inferiore ai 7 giorni, e in alcuni casi non è
nemmeno retribuito. D’altra parte nemmeno l’Italia rispetta le linee guida dell’UE, con soli 5 giorni di
congedo per i neo-papà.
Quello che è emerso però da uno studio di Eurofound in 23 su 28 paesi dell’Ue è che solo il 10% dei padri
decide di prendere il permesso per assentarsi dal lavoro in occasione della nascita del proprio bambino,
con uno spettro che va dallo 0,02% della Grecia al 44% della Svezia. Evidentemente la semplice garanzia
del diritto non equivale al raggiungimento dell’obiettivo.
A influire sulle scelte degli uomini ci sono diversi fattori, oltre a quello culturale. In primo luogo quello
economico: il basso livello dei compensi influenza l’assunzione o meno del congedo di paternità. Ma
contano anche i criteri per l’ammissibilità e la mancanza di flessibilità nell’orario di lavoro.
Quando il congedo di maternità diventa un ostacolo
Affinché il congedo di paternità sia uno strumento di riequilibrio dei carichi «ci vogliono tempi più lunghi
e l’assunzione di una responsabilità di cura da soli e non in contemporanea con la madre», ha dichiarato la
statistica Linda Laura Sabbadini durante un’audizione sulla Direttiva sull’equilibrio tra attività
professionale e vita familiare al Parlamento europeo a febbraio di quest’anno.
Un elemento da tenere in considerazione nella valutazione delle politiche per la parità di genere, però, è il
rapporto tra la durata del congedo e l’indennità di cui dispone la madre. Se infatti la prima è molto lunga
la donna rischia di rimanere fuori dal mercato del lavoro per troppo tempo, trovando poi difficoltà nel
reinserimento. Allo stesso tempo, in caso di bassa remunerazione la donna finisce per dipendere dallo
stipendio del marito, come fanno notare i ricercatori del Fondo Monetario Internazionale Ruben Atoyan e
Jesmin Rahman.
Tra gli stati dei Balcani occidentali extra UE, per esempio, l’Albania e la Bosnia Erzegovina spiccano per
la lunghezza del congedo di maternità (52 settimane), ma l’indennità è pari solo al 60-65% del salario.
Diverso è il caso della Bulgaria, dove il congedo dura addirittura 58 settimane ma viene pagato al 90% –
la situazione migliore in Europa. Per incentivare il reinserimento delle neo-mamme nel mercato
occupazionale, il governo bulgaro nel 2017 ha adottato una misura che garantisce alle donne che rientrano
al lavoro entro il primo anno d’età del figlio il 50% del benefit che riceverebbero rimanendo a casa.
Nei paesi dell’UE il tasso di occupazione femminile nel 2016 era ancora inferiore di 11,6 punti
percentuali rispetto a quello maschile: la perdita economica dovuta a questo divario nel 2013 era stimata
intorno ai 370 miliardi di euro all’anno. Secondo Eurostat, la quota di uomini che lavorano part-time
diminuisce all’aumentare del numero dei loro figli, mentre aumenta per le donne. Secondo la
Commissione europea le responsabilità assistenziali sono la causa di inattività per quasi il 20% delle
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