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Giuseppe Bruni intervista Atlas Onlus ed immigrazione

Si fa un gran parlare di immigrazione, di ‘aiutiamoli a casa loro’, di accoglienza e respingimenti.
Oltrepassando i tanti luoghi comuni e le frasi fatte, abbiamo deciso di andare a sentire la voce dal vero chi
opera in questo campo. Atlas Solidarity, associazione di volontariato a carattere solidaristico, è costituita da 32 soci volontari, ha sede in provincia di Bologna. Sviluppa la propria attività a sostegno delle popolazioni più disagiate. Lo fa essenzialmente trasferendo competenze e, quando occorre, attrezzature utili a praticare tali competenze per rendere autonomi i destinatari dell’iniziativa. In Italia organizza e tiene corsi di professionalizzazione (badanti, colf, baby sitter) e di avviamento all’imprenditorialità per immigrati e italiani in difficoltà lavorative (ormai alla terza edizione).All’estero, ha operato in Libano d’intesa con UNDP per lo sviluppo di cooperative femminili di trasformazione dei prodotti agricoli. Da qualche anno, in Uganda sta sostenendo la St. Theresa Vocational School di Mahyoro. Grazie all’Ufficio Stampa Carapellese, abbiamo intervistato il Presidente dell’Associazione Atlas Solidarity, Giuseppe Bruni.

Buongiorno sig. Bruni e complimenti per la vostra iniziativa. Immigrazione e paesi del terzo mondo è un
tema quanto mai attuale, in un clima di totale respingimento, che esperienza portate voi?
Grazie dei complimenti, ma siamo consapevoli di fare infinitamente poco in relazione ai bisogni. Siamo fra
coloro che pensano al fenomeno dell’immigrazione come fenomeno epocale. Lo è stato molte volte nei
millenni, in genere a causa di eventi naturali, oggi è dovuto a cause prevalentemente umane: l’accentuarsi
del colonialismo nelle varie forme che ha assunto negli ultimi due secoli e quelle attuali ancor più crude,
guerre, rapina di risorse naturali, corruzione, ecc. Atlas Solidarity agisce sui due fronti. Aiuta l’integrazione
in Italia di chi ci è già arrivato, lo fa attraverso la formazione all’imprenditorialità e alla qualificazione di chi si vuol dedicare a taluni servizi (colf. Babysitter, badanti, ecc). E sostiene attività formative in Africa, affinché i giovani acquisiscano competenze specifiche che li aiuteranno a trovare lavori dignitosi e a contribuire allo sviluppo del loro Paese. Nella fattispecie in Uganda.
Si parla di pseudo migranti, sembra quasi che chi cerca di arrivare in Italia/Europa lo faccia per diletto,
voi che operate in questo campo cosa potete dire al riguardo?
Fra coloro con cui abbiamo rapporti, prevalentemente donne, ma anche molti uomini, di immigrati che
siano venuti per diletto non ne abbiamo incontrati. A meno che non si ritenga dilettevole essere maltrattati,
seviziati, violentati, rimanere in mare su una barca sovraffollata per giorni e correre il pericolo di annegare.
E non sono quadretti da propaganda “buonista”, si tratta solo della realtà di cui spesso le persone portano il segno sui loro corpi, sul viso, segni visibili.
Altra frase fatta che si sente sempre dire è “Aiutiamoli a casa loro”, voi avete un progetto ed esperienza
in questo campo, è possibile, ad oggi, evitare l’immigrazione ‘aiutandoli a casa loro’?
Sì. Nell’ambito dei progetti di “aiuto a casa loro” abbiamo ricevuto e ospitato in Italia due giovani docenti di una scuola professionale ugandese (400 ragazzi e ragazze di 14-19 anni) e, con il contributo di Cefal, sono stati formati all’insegnamento della meccanica. Abbiamo poi raccolto da aziende amiche molte macchine utensili e altre attrezzature per costruire un’aula laboratorio di meccanica in questa scuola. Per poter affrontare i costi della spedizione del container in Uganda abbiamo lanciato un progetto di “crowdfunding” denominandolo “Aiutiamoli a casa loro, per davvero” e dandogli ampia visibilità sui social. E’ stato un successo, ma per il generoso intervento di nostri soci e loro amici, in sostanza il nostro contesto. Di tutti coloro che sostengono di doverli “aiutare a casa loro” non s’è visto nessuno! Puro slogan mistificatorio che copriva ciò che fino a qualche tempo fa era vergognoso ammettere e che ora ci sembra esser stato sdoganato: un egoismo ed un razzismo che non trovano più vergogna ad esplicitarsi nella loro vera natura.

Per arrivare a fare sì che non abbiano più necessità di abbandonare tutto per cercare di sopravvivere,
cosa è, o sarebbe, necessario fare? Con che tempistiche?
A nostro avviso –e ne abbiamo parlato più volte nella nostra associazione e con altre- sarebbero necessarie
alcune soluzioni di portata sia strutturale, che contingente. Anzitutto smettere di rubare terre e risorse
naturali da parte dei Paesi sviluppati, quelli di vecchia tradizione coloniale, ma anche le nuove entry cinesi.
Situazioni ben documentate che riguardano non solo le miniere, ma estesissime superfici agricole,
espellendo le popolazioni che da millenni vi erano insediate. A complemento di quest’astensione dal rubare
in casa altrui, si potrebbero predisporre piani di sviluppo locale con la partecipazione di quelle popolazioni
per farne i promotori di quell’auspicato sviluppo di cui beneficerebbero anche i Paesi più evoluti. Sarebbero molteplici i benefici: si contrasterebbe la povertà e le disuguagliane, si formerebbero imprenditori e lavoratori di aree nelle quali tutti prevediamo esplosioni demografiche senza precedenti: è l’unica cosa da fare se non li si vuole tutti qui. Nel breve c’è solo da gestire un fenomeno che né il mare, né i muri arresteranno. E lo si può gestire, gestendo l’integrazione di chi arriva, perseguitato da guerre e/o da fame senza distinzione (producono lo stesso risultato: la morte). In due modi, a nostro parere: “aiutandoli a casa loro” trasferendo competenze, investendo nei vari settori in modo che impieghino quelle competenze.
A questo proposito abbiamo un’idea sugli investimenti da fare “a casa loro”: che vengano retribuiti com’è
giusto, i capitali finanziari investiti e, parimenti, vengano ripagati tutti gli altri capitali che le imprese usano per produrre quel profitto che ripagherà quel capitale finanziario: il capitale umano, quello sociale e
relazionale, quello naturale riversandone il ripagamento in termini di benefici per tutta quella comunità in
cui le imprese sono insediate. Idealismo utopistico? Neppure un po’. E’ ciò che le imprese europee dal 2017
sono tenute a fare, anzitutto quelle di più grosse dimensioni e si vede già il trascinamento anche per le PMI
in termini di convenienza economica: il potere di una buona reputazione!
Voi avete anche progetti di ausilio e aiuto in Italia per gli immigrati, su questo cosa può dire? Nel
sensazionalismo mediatico sembra che vengano qui a fare niente a vivere sulle nostre spalle, ma voi
portate esperienze di imprenditorialità.
Più che altro portiamo esperienze di persone che dimostrano una volontà ferrea e una determinazione che
ricorda quella d’altri tempi nell’apprendere e nell’emanciparsi, qualche volta dallo stesso analfabetismo
(anche ragazze giovani), assolutamente sorprendenti, come sorprendenti sono i risultati che conseguono.
Sanno che non è semplice farsi assumere, spesso inutile attenderselo e manifestano un eccezionale coraggio nell’intraprendere attività che noi non vediamo più come opportunità reddituali: dall’organizzare la raccolta di vecchi elettrodomestici e recuperarne le parti, alla loro riparazione e recupero per i Paesi d’origine, o ancora, all’organizzazione di momenti di coesione fra connazionali che si trasformano nell’organizzazione imprenditoriale di momenti ricreativi e gastronomici, sempre più spesso aperti ai loro amici italiani e poi estesi a tutti, indistintamente. Con il bel risultato che la cosa produce curiosità, interazione, conoscenza fra culture, fiducia reciproca.
Quali politiche e/o iniziative metterebbe in atto rispetto l’immigrazione?
Quelle di carattere più generale le ho dette sopra. Per quanto riguarda Atlas Solidarity, noi proseguiremo
nel nostro progetto formativo per coloro che sono qui, lo stiamo facendo presso quella mirabile istituzione
che è il Centro Interculturale Zonarelli, un ambiente effervescente e ricco di iniziative in cui ci troviamo a
nostro agio e che, per ciò che possiamo, cerchiamo di vivacizzare ulteriormente. Relativamente all’Africa
proseguiremo nel sostegno a quella scuola professionale ugandese, investendo in due ulteriori settori: la
ristorazione (in Uganda si sta sviluppando un notevole flusso turistico e la scuola è nella zona dei Parchi
nazionali dei laghi e delle foreste equatoriali): la formazione delle insegnanti, affinché formino ragazze e
ragazze che vogliano impegnarsi nel turismo, l’attrezzamento della parte alberghiero-ristorazione della

scuola; lo sviluppo dell’agricoltura e quindi la formazione degli insegnati, il reperimento di un paio di
trattori e di alcune macchine agricole da inviare alla scuola che, peraltro, insiste su una superfici agricola di
ben 35 Ha, oggi non coltivati. Con l’aiuto di molti, speriamo.

MAURIZIO DONINI