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Infolampo: Ocse – ricchi

Cgil: dati Ocse confermano le nostre preoccupazioni
Cigna: “Il governo affronti il tema diversamente, a partire da questa legge di bilancio. Ai giovani deve
essere assicurato un futuro attraverso una pensione di garanzia nel sistema contributivo”
“Anche i dati diffusi dall’Ocse confermano che il tema della previdenza deve essere affrontato
diversamente, a partire da questa legge di bilancio. Deve essere garantito un futuro previdenziale ai
giovani attraverso una pensione di garanzia nel sistema contributivo”. Così Ezio Cigna, responsabile
previdenza pubblica della Cgil nazionale, commenta
quanto rilevato quest’oggi dall’Organizzazione per la
cooperazione e lo sviluppo economico.
Nel dettaglio, Cigna sottolinea: “I dati rivelano che
l’Italia sarà uno dei Paesi europei che manderà in pensione
a 71 anni e 2 mesi il ventenne nato nel 1996 che inizia a
lavorare nel 2016, supponendo una carriera lavorativa
senza interruzioni. Nella pubblicazione però – prosegue il
dirigente sindacale – non si tiene conto di come è
congeniato il nostro sistema, che in realtà, per tutti i
soggetti che hanno iniziato a lavorare dopo il 1995, che
hanno quindi un sistema previdenziale contributivo,
andranno in pensione molto più in là. Il rischio reale per
coloro che non raggiungeranno un certo importo di
pensione è quello di arrivare a percepire un assegno di
vecchiaia a 75 anni”.
“La discontinuità del lavoro dei giovani è già un dato di
fatto. Per questo abbiamo avanzato più volte al governo la
richiesta di rivedere le attuali soglie previste del 2,8 e 1,5 volte l’assegno sociale, che penalizzano
nuovamente il lavoro povero e discontinuo”. In merito alla spesa pensionistica, sottolinea il responsabile
previdenza pubblica della Cgil nazionale come l’Ocse non consideri la composizione della spesa
previdenziale: “diversa da quella di altri Paesi europei poiché tiene conto anche di quella assistenziale”.
“Affinché si possa confrontare seriamente la nostra spesa previdenziale è necessaria una comparazione a
livello internazionale al fine di escludere quelle voci che non hanno attinenza alcuna con le prestazioni
pensionistiche. Per questo – conclude Ezio Cigna – chiediamo al governo che si impegni a promuovere in
sede comunitaria una verifica dei criteri di rappresentazione della spesa pensionistica”.

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giovani

Concrete, l’Assemblea nazionale
delle donne Spi-Cgil

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Ricchi per caso. La parabola dello sviluppo italiano
Dall’Unità in poi l’Italia ha compiuto un percorso “subottimale” ed è sempre cresciuta meno di quanto
avrebbe potuto. Una recensione al volume curato da Vasta e Di Martino
di Giacomo Gabbuti
Il volume curato da Di Martino e Vasta rappresenta probabilmente una svolta nella crescente pubblicistica
storico-economica. Il lavoro, frutto di un collettivo di accademici (oltre agli autori, in ordine di
apparizione, E. Felice, G. Cappelli, A. Nuvolari, A. Colli e A. Rinaldi), nasce da uno speciale di
Enterprise & Society, intitolato Wealthy by accident? Il punto interrogativo era forse più in linea con
l’interpretazione; ma più che in questa, la principale novità del volume sta nel modo in cui si concepisce il
ruolo della disciplina nel più generale dibattito pubblico.
Nel 1990, Zamagni mandava alle stampe una delle più importanti e citate sintesi della storia economica
d’Italia. Se, come scriveva Fenoaltea, il ruolo della disciplina (e delle scienze sociali) è quello di
proiettare, come nelle leggende dei nostri antenati, l’immagine che abbiamo del nostro presente, è
inevitabile che le interpretazioni riflettano i tempi in cui vengono scritte. Il titolo del volume – Dalla
Periferia al Centro – rifletteva l’ottimismo e l’orgoglio di un Paese che, forse ancor più che dopo il
Miracolo, sentiva di essere scampato per sempre dalla miseria. In un modo che colpisce chi quegli anni
non li ha vissuti, e ne ha spesso letto descrizioni incentrate su inflazione e finanza pubblica fuori
controllo, la pubblicistica dell’epoca sembra riflettere, forse per la prima volta, la voglia degli italiani di
definirsi e raccontarsi in virtù della propria economia, atipica, ma di successo; calabroni industriosi e
lavoratori, seppur allergici al fisco. Nel decennio precedente, la ‘terza Italia’ della provincia operosa
aveva guidato il primo, storico ‘sorpasso’ ai danni del Regno Unito. I distretti industriali, che trovarono in
Becattini il loro cantore, facevano sembrare il nostro Paese il modello di un futuro post-fordista,
omaggiato dalle visite del neo-eletto Presidente Clinton. Marcello De Cecco, tra le poche “Cassandre” di
quegli anni, commentò nel 1995 che era un peccato che un libro così meritorio dovesse presto cambiare
titolo – aggiungendo “e ritorno”. Proprio nella sbornia per la piccola impresa, l’economista abruzzese
vedeva la chiave di future sventure economiche. Ma tra l’uscita del libro e la recensione di De Cecco, il
clima era già cambiato. Il 1992, apertosi con lo scandalo di Mani Pulite, si chiudeva con la crisi valutaria,
e l’Italia veniva declassata da frontiera post-fordista a malato d’Europa.
Da allora, gli storici economici hanno appreso prima e meglio di altri la lezione di De Cecco. Mentre il
Paese si concedeva alle sirene della ‘rivoluzione liberale’ berlusconiana, o individuava nella mera
disciplina di bilancio e nella fedeltà all’Europa le garanzie di prosperità, abbandonando progettualità e
visione strategica, la disciplina ha proiettato nel passato le inquietudini del presente. Di declino
economico in prospettiva storica parlava, per esempio, Gianni Toniolo, in un volume del 2004: il caso di
Venezia veniva assunto ad emblema, di come il successo di istituzioni e patti sociali rischiasse di rendere
impossibili aggiustamenti anche minimi, trasformando periodi di rallentamento relativo in vero e proprio
declino. Di certo non un “declinista”, introducendo l’importante volume da lui curato per il 150°
dell’unità d’Italia, Toniolo ha enfatizzato il successo, in prospettiva secolare, dell’economia italiana,
capace di raggiungere livelli inimmaginabili ai tempi di Giolitti e Lloyd-George. Il dubbio prendeva
tuttavia corpo nella generazione successiva di studiosi (prima, e meglio, che nel dibattito politico), fino a
prendersi i titoli di testa (ad esempio, nella successiva sintesi di Felice).
Ricchi per caso avanza un’interpretazione ancor più netta: dall’Unità, l’Italia ha compiuto un percorso
“subottimale”. A parte brevi periodi (quello giolittiano, il Miracolo), l’Italia è sempre cresciuta meno di
quanto avrebbe potuto, senza convergere verso i paesi più sviluppati, come sintetizzato da un grafico in
cui la posizione dell’Italia rispetto agli Stati Uniti, dopo un periodo di convergenza, risulta oggi uguale a
quella del 1860, contenuto nel cap. 1 (Felice), esauriente descrizione degli andamenti di Pil e dei divari
regionali (anche questi, decisamente subottimali). Il libro prosegue cercando le cause di questo insuccesso
nei sistemi scolastico (cap. 2, Cappelli) e di innovazione (cap. 3, Nuvolari e Vasta), nella struttura e nelle
politiche industriali (cap. 4, Colli e Rinaldi), e nella natura delle istituzioni (cap. 5, Di Martino e Vasta),
mantenendo un buon equilibrio tra la divulgazione delle tante evidenze quantitative prodotte negli ultimi
anni, e quei fatti storici e politici necessari a leggerle. L’idea di fondo è che il fallimento dello sviluppo
italiano stia nella specializzazione in settori poco innovativi, nella mancanza di investimenti in istruzione
e ricerca, che ha impedito al Paese di raggiungere stabilmente la frontiera tecnologica, intrappolandolo
invece in forme di capitalismo predatorio, dove la competizione si gioca sul prezzo, comprimendo i salari
e usando la valvola dell’evasione evasione. I capitoli 2 e 3 hanno il grande merito di dar spazio ad aspetti
Leggi tutto: http://sbilanciamoci.info/ricchi-caso-la-parabola-dello-sviluppo-italiano/