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Infolampo: Contante – Imposta piatta

Stop al contante per la retribuzione
Al Senato giace una norma utile a contrastare la pratica di certi datori di lavoro di corrispondere, sotto
ricatto del licenziamento o della non assunzione, un salario inferiore a quanto stabilito pur facendo
firmare la ricevuta della busta paga regolare
di Giorgio Frasca Polara
E’ salita agli onori della cronaca (forse perché ad essere coinvolto era un candidato all’assemblea
siciliana) la notizia dell’arresto di un albergatore accusato di estorsione: le buste paga di due suoi
dipendenti erano regolari, ma assai meno la retribuzioni
reali, dimezzate. Per giunta le vittime dell’estorsione
dovevano firmare ricevute che recavano cifre superiori a
quelle effettivamente incassate. Ebbene, questo non potrà
più avvenire se il Senato si spiccerà a confermare (prima
della scadenza della legislatura) il voto con cui la Camera ha
approvato una norma che stabilisce l’obbligatorietà per tutti
i datori di lavoro di procedere al pagamento delle
retribuzioni esclusivamente attraverso modalità tracciabili:
bonifico bancario, o pagamento in contanti ma – attenzione!
– presso un ufficio postale o una banca indicata dal
lavoratore, o infine con l’emissione di un assegno
consegnato direttamente al lavoratore o a un suo delegato.
Si vieta, dunque, ed esplicitamente, che la retribuzione
possa essere corrisposta dai datori di lavoro (o committenti)
per mezzo diretto di somme contanti, qualunque sia la tipologia del rapporto di lavoro instaurato.
Evidente l’obiettivo, come si desume anche dalla truffa dell’albergatore agrigentino: contrastare la pratica
diffusa tra alcuni datori di lavoro (e più diffusa di quanto non si creda, soprattutto tra gli sfruttati
extracomunitari) di corrispondere, sotto il ricatto del licenziamento o della non assunzione, una
retribuzione inferiore ai minimi fissati dalla contrattazione collettiva, pur facendo firmare la ricevuta della
busta paga dalla quale risulta una effettiva retribuzione regolare. Come sottolineato nel dibattito, questa
prassi deprecabile rappresenta un grave danno per i lavoratori che vengono non solo depauperati di parte
del lavoro prestato, ma sono lesi nella loro dignità e nel diritti ad una giusta retribuzione in violazione
degli articoli 1, 35 e, soprattutto, 36 della Costituzione. Al contrario, la corresponsione di una retribuzione
inferiore si risolve in un vantaggio illecito per il datore di lavoro.
La norma si applica a tutti i rapporti di lavoro subordinato di cui all’art. 2094 del codice civile,
indipendentemente dalle modalità di svolgimento della prestazione e dalla durata del rapporto, nonché ad
ogni rapporto di lavoro originato da contratti di collaborazione coordinata e continuativa e dai contratti di
lavoro instaurati in qualsiasi forma dalle cooperative con i propri soci. La firma della busta paga da parte
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Macerata. Concorso “Il Tempo,
la Storia, le nostre Storie”

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Quanta demagogia nel dibattito sull’imposta piatta
Diverse forze politiche sembrano aver virato sulla flat tax. Uno dei benefici attesi che si adducono a
sostegno della proposta è la semplificazione del sistema. Ma è davvero così necessaria un’aliquota unica
per raggiungere questo scopo?
di Cristian Perniciano, responsabile Politiche fiscali della Cgil nazionale
In vista delle elezioni si sta imponendo con decisione il dibattito sul tema delle politiche fiscali, in
particolare su quello delle imposte sui redditi. Diverse forze politiche che raccolgono anche un consenso
notevole nel Paese sembrano aver virato (o essere tornate) sulla flat tax, ovvero sul superamento delle
aliquote progressive per passare a un’aliquota unica da applicarsi a tutti i contribuenti, a prescindere dal
reddito. La proposta è tornata in auge qualche mese fa grazie alla proposta dell’Istituto Bruno Leoni,
think tank di impostazione liberista, il quale ha ipotizzato un’aliquota unica al 25%.
Crediamo che occorra evitare di concentrarsi sui profili di costituzionalità. La deduzione che
accompagna tutte le proposte di flat tax, tra l’altro, rende progressiva la tassazione sul reddito lordo,
anche se con un grado minimo. Anche sui redditi elevati la progressività, pur impercettibile, è
teoricamente presente. Il dubbio sulla costituzionalità rimane, ma resta il fatto che le principali obiezioni
che vanno mosse a questa proposta sono di merito più che di diritto.
Uno dei benefici attesi che si adducono a sostegno della proposta è la semplificazione del sistema.
Crediamo invece che con gli attuali strumenti informatici non sia necessaria un’aliquota unica per
raggiungere questo scopo. È demagogico, sbagliato, e finanche ridicolo pensare che “semplice” debba
significare “calcolabile a penna con una moltiplicazione”. Si pensi per completezza che il sistema
tedesco, solo per fare un esempio, contempla un’aliquota “personalizzata” in funzione di alcune variabili.
Non per questo il sistema tributario della Germania è considerato complicato.
Soprattutto, crediamo che se semplificare significa trattare in modo uguale situazioni diverse, allora non è
detto che la semplificazione sia un obiettivo da perseguire. Davvero è positivo tassare allo stesso modo
chi affitta a canone concordato e chi affitta a canone libero? Davvero è auspicabile, sull’altare di questo
malinteso concetto di semplificazione, applicare praticamente la stessa aliquota a chi in un anno guadagna
30 mila euro e a chi ne denuncia 300 mila (categoria in realtà rara, e per la gran parte composta da
lavoratori dipendenti)?
In merito alla supposta grande diffusione della flat tax, e all’elenco di Paesi portati a dimostrazione del
successo di questo modello, eviteremo di parlare di quelli rispetto ai quali non abbiamo sufficienti
informazioni, come Abcasia, Sant’Elena o Tuvalu, per concentrarci sul modello Est europeo. Un modello
che ha alle spalle una storia e condizioni di partenza assolutamente non paragonabili alle nostre e che, a
nostro parere, è lungi dall’essere il nostro obiettivo. Non solo: laddove non abbia anche fruito di
contributi Ue per ripartire, rimane un laboratorio di abbassamento dei diritti rispetto al modello europeo
tradizionale e un’area di dumping e di ricatto per i lavoratori delle vecchie socialdemocrazie. In
particolare, i Paesi orientali che sono nell’area dell’Unione stanno fungendo da traino all’abbassamento
dei costi e dei diritti dei lavoratori di tutta l’area.
Peraltro, accanto a Paesi che hanno avuto un impatto limitato sui conti pubblici a seguito
dell’introduzione dell’imposta piatta (anche perché accompagnata da taglio della spesa, o concomitante
con il boom dei prodotti energetici e con una crescita sostenuta del Pil antecedente alla riforma fiscale), ci
sono casi (Slovacchia) in cui si è dovuto correre ai ripari e reintrodurre un incremento del prelievo fiscale
(in proposito, si veda focus su blog del Sole-24 Ore). Non c’è dubbio. Per un’Italia che deve uscire dal
pantano della crisi, continuiamo a preferire la rincorsa al modello tedesco, francese, scandinavo, anziché
verso il modello slovacco, rumeno o ungherese.
Le proposte di flat tax sono in genere accompagnate da una deduzione che dovrebbe costituire “minimo
vitale” (nella proposta dell’Istituto Bruno Leoni addirittura questo varia geograficamente, è quindi più
alto al Nord e più basso al Sud), che sarebbe erogato direttamente in caso di incapienza (la cosiddetta
negative income tax) e che, quindi, non incentiva la ricerca del lavoro, diventando, nella miglior
tradizione liberista alla Von Hayek, una sorta di reddito di cittadinanza.
E, aggiungiamo, si persevera nel portare come argomentazione la formula chiamata “curva di Laffer”,
mai dimostrata neanche dal suo inventore, per sostenere che l’evasione è alta a causa dell’alta pressione
fiscale, quando invece è l’esatto opposto. La pressione fiscale è alta perché in troppi non pagano le
imposte dovute. Che imposte più basse non assicurino maggiore fedeltà fiscale lo dimostra plasticamente
il caso Apple, la cui corporate tax più bassa d’Europa (quella irlandese, al 12,5%) non è bastata a
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