Infolampo: Diseguaglianza – storia
Camusso: continua la lotta contro le diseguaglianze
Il segretario generale della Cgil conclude la kermesse di Lecce: “La legge di bilancio deve intervenire
sulle pensioni. Bisogna superare il Jobs Act, che ha peggiorato le condizioni delle persone. Basta
soluzioni spot, garantire i diritti di tutti”
“La notizia di un aumento degli infortuni sul lavoro nel 2017 è un dato drammatico, che bisogna provare
ad analizzare a fondo. Molti degli infortuni – tre al giorno quest’anno – sono la ripetizione dei una storia
infinita. Non sono frutto di eventi imprevedibili, ma sono l’effetto di un abbassamento generalizzato della
soglia di sicurezza. Dietro queste morti, infatti, c’è un
fenomeno diffuso, la precarizzazione del lavoro. È su
questo che bisogna lavorare: sulla qualità dell’impiego”.
Ha esordito così il segretario generale Susanna Camusso
nell’intervista tenuta da Ferruccio De Bortoli in piazza
Sant’Oronzo, a Lecce, che ha concluso l’edizione 2017
delle Giornate del lavoro della Cgil.
Per quanto riguarda il tema della riforma delle pensioni,
invece, Camusso ha sottolineato innanzitutto “che deve
essere contenuto nella legge di bilancio”, e che deve
essere affrontato tenendo conto di tre problemi
fondamentali. Il primo è che in Italia esiste un sistema
previdenziale ingiusto per i giovani. “Nella furia
iconoclasta degli ultimi governi, poi, le donne di questo
paese sono state tartassate. La loro età pensionabile è
stata aumentata di sette anni senza una corrispondente
azione di miglioramento delle condizioni di lavoro. Il
terzo tema è che un sistema previdenziale si deve
reggere su principi universali. Quindi non si può più gestire in maniera emergenziale, con soluzioni spot
che risolvono ogni volta soltanto i problemi di singole platee. Dobbiamo uscire una volta per tutte da
questa logica e garantire i diritti a tutti”.
“Tutto il risparmio che abbiamo esercitato in questa stagione – ha aggiunto il segretario della Cgil,
parlando delle coperture necessarie – è arrivato dalle pensioni. E lo si è fatto così bene che, ad esempio, si
sono spesi molti miliardi per sistemare il problema – ancora aperto – degli esodati”. “Dobbiamo uscire
dalla sindrome di voler apparire a tutti i costi come i primi della classe in Europa – ha continuato -. Il
risparmio si può fare anche altrove. Perché quello sul sistema pensionistico non è un vero risparmio,
perché determina un aumento di spesa in assistenza e peggiora le condizioni di vita delle persone”.
Alla domanda su vitalizi dei parlamentari, inoltre, la leader di corso d’Italia ha risposto che “il dibattito in
corso è frutto di una cattiva politica. E la norma che si è fatta è una norma cattiva”. C’è invece bisogno di
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Marche, disoccupazione da record.
Le donne restano le più penalizzate
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Perché la storia
Nelle università si è drasticamente ridotto, nei corsi di economia, lo spazio dedicato alla storia del
pensiero economico e alla storia economica. In Italia, come a livello internazionale, si assiste alla
progressiva scomparsa della storia nella formazione dell’economista. Scompare dai requisiti della
formazione perfino l’introduzione alla storia delle idee economiche; si diluisce la conoscenza degli eventi
economici nel tempo: i regimi monetari, le fasi dello sviluppo, le crisi finanziarie, l’innovazione
tecnologica, l’evoluzione delle politiche economiche. Le due discipline, marginali o assenti nelle lauree
triennali, sono quasi scomparse nella formazione magistrale e dottorale, quasi fossero un ornamento per
l’arricchimento culturale degli studenti, non un pilastro della formazione cognitiva.
di Bruna Ingrao
Un laureato in economia può uscire dal percorso formativo ignorando Smith, Walras o Schumpeter, senza
nozione del dibattito passato su liberismo ed economia pianificata, senza saper distinguere tra liberismo e
liberalismo, senza conoscere la prima rivoluzione industriale, la grande depressione, l’evoluzione dei
regimi monetari, e così via. Ciò porta in prospettiva all’impoverimento culturale della figura
dell’economista. Dobbiamo preoccuparcene? E perché? Intendo argomentare che è urgente ripristinare il
ruolo della storia economica e della storia delle idee nella cassetta degli strumenti dell’economista, non
solo per l’ovvia ragione di evitare l’ignoranza. Le ragioni profonde riguardano il mestiere
dell’economista, come deve essere correttamente esercitato nella costruzione delle teorie,
nell’interpretazione dell’attualità, nel contributo alla politica economica per identificarne i compiti e gli
aspetti operativi.
Qual è il significato della storia economica per l’economista contemporaneo impegnato prioritariamente
nella costruzione di modelli matematici e nella verifica econometrica? E’ l’educazione alla comprensione
della complessità nell’economia e specificamente nella rete globale dei mercati: le interazioni con gli
aspetti della socialità legati alle istituzioni, alle norme, ai valori; la temporalità irreversibile degli eventi; i
processi di cambiamento di medio e lungo periodo. La capacità di vedere la complessità, che è portata
dalla conoscenza storica, affina il giudizio dell’economista come teorico, come econometrico, come
protagonista delle scelte di politica economica. Il mestiere dell’economista, oltre a capacità logiche,
chiede la solidità del giudizio, cioé l’intelligente comprensione per discriminare e adattare flessibilmente i
principi nella lettura degli eventi reali, immersi nella storia con dinamica evolutiva irreversibile.
La teoria economica contemporanea rivendica la libertà di modellizzazione: concepisce come compito
della teoria la costruzione di modelli matematici immaginati come esperimenti mentali, definiti ora casi
ideali, ora casi esemplari, ‘favole’ o ‘storie’. L’economista teorico rivendica la libertà di costruire nei
modelli esperimenti mentali per trarne conclusioni in linea deduttiva. La prassi di ricerca dominante scava
una distanza incolmabile tra la teoria e l’interpretazione, che non può essere colmata rigorosamente con il
ricorso all’evidenza empirica, spesso neppure invocata a riscontro per la natura astratta dell’esperimento
cognitivo costruito.
Come discernere la rilevanza o l’irrilevanza del ‘gioco’ teorico per la comprensione della realtà, supposto
se ne possano ricavare conclusioni forti, cosa che non sempre l’apparato matematico sofisticato permette?
La percezione della complessità della storia e la facoltà del giudizio rientrano di prepotenza dalla finestra
nell’interpretazione, dopo essere state cacciate dalla porta formale del modello. Si deve valutare, con
attività cognitiva indipendente e specifica, se e quando, entro quali limiti, per quali problemi il ‘gioco’
teorico del modello rilevi nella lettura degli eventi, che si presentano con urgenza all’attenzione
dell’economista. Qui la conoscenza della storia economica è compagna indispensabile alla teoria
economica, se questa deve prendere senso e trasformarsi in interpretazione della realtà.
La finezza dell’osservazione storica, la narrazione temporale degli eventi, la conoscenza della pluralità
degli attori in gioco, insegnano a pesare il giudizio sul rilievo dei vari aspetti in uno specifico panorama.
Schumpeter, Fisher o Friedman, autori diversi per approccio d’idee e metodo, hanno fuso nelle loro opere
sul ciclo economico teoria e attenzione alla storia economica. A maggior ragione, l’adozione
dell’epistemologia ispirata all’estrema libertà di modellizzazione impone all’economista l’affinamento del
giudizio nella conoscenza storica, pena il rischio di scadere nell’irrilevanza o nell’irrealtà. Ciò è accaduto
nella costruzione delle teorie dette del ciclo reale, dove modelli matematici con un solo agente
rappresentativo, sorta di eremita isolato, sono stati spacciati come solide teorie delle fluttuazioni
economiche, per cadere nell’irrilevanza e perfino nel ridicolo a fronte della crisi finanziaria 2007-2009,
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