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Infolampo: Pensioni – Sindacato

schermata-del-2016-05-24-150456Cgil: sulle pensioni pronti alla mobilitazione
Il segretario confederale Roberto Ghiselli in un dibattito alla kermesse leccese: “La fase 2 con il governo
fa passi timidi e finora del tutto irrilevanti. Il tempo stringe, servono chiarimenti precisi entro i primi
giorni di ottobre”
di Maurizio Minnucci
LECCE – “Per le pensioni ci vogliono le risorse. Se il governo continua a dire che non ci sarà nulla, noi
siamo pronti alla mobilitazione”. A rilanciare, durante un dibattito alle Giornate del lavoro della Cgil in
corso a Lecce, è il segretario confederale Roberto Ghiselli, uno dei protagonisti del confronto tra governo
e sindacati sulla delicata partita previdenziale. “Noi vogliamo continuare il confronto, ma questo non
basta se i tavoli non producono risultati: finora nella ‘fase 2’ ci sono stati timidi passi in avanti del tutto
irrilevanti”.
“Abbiamo già invitato tutte le strutture a fare assemblee –
precisa Ghiselli – e a parlare con la cittadinanza, un impegno
preso anche con Cisl e Uil. Se entro i primi giorni di ottobre
non avremo risposte sufficienti, è evidente che dovremo
pensare a una mobilitazione diretta usando tutti gli strumenti
di cui possiamo disporre. Sulle pensioni abbiamo ancora una
ferita aperta, non possiamo permetterci di dare l’idea che
abbiamo fatto finta. Come sempre, siamo un sindacato
responsabile, però su alcuni temi pretendiamo risposte
chiare”.
Se la prima fase del confronto ha dato qualche risultato (vedi
Ape sociale e lavoratori precoci), in questo periodo si
discute di altri argomenti sui quali i sindacati non sono
disposti a compromessi: speranza di vita, prospettiva per i
giovani, lavoro di cura e donne, flessibilità in uscita, tutela
del potere d’acquisto delle pensioni in essere. “La nostra piattaforma immagina un modello radicalmente
diverso dalla riforma Fornero che, lo ricordo, fu una manovra finanziaria per fare cassa. Le cifre sono
note, circa 80 miliardi nel periodo 2012-2020. Perciò siamo convinti che non sia sufficiente apportare
qualche modifica. Con responsabilità ed equilibrio affrontiamo la ‘fase 2’ ma i tempi sono ormai
strettissimi, siamo nell’ordine di qualche settimana”.
Che sia necessario rimettere mano alla riforma lo sostiene anche Angelo Pandolfo, docente di diritto del
lavoro all’Università di Roma La Sapienza, intervenuto al dibattito: “La mia opinione è che questo
sistema, venuto fuori in uno stato di necessità o presunta tale, richieda aggiustamenti importanti in
particolare sugli ammortizzatori sociali, perché i problemi sono evidenti. In un quadro di tutela sociale
servono misure compensative per chi perde il lavoro. La riforma del ‘95 con il contributivo aveva il
grande vantaggio della flessibilità dai 57 ai 65 anni. Ma gli ultimi cambiamenti sono stati fortissimi, oggi
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Ambiente: i disastri sono colpa
nostra

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Se il sindacato vuole avere un futuro
In molti paesi, tra cui il nostro, le adesioni sono in calo. Ma il declino non è ineluttabile, se si torna a
riflettere sul perché si è ridotta la capacità di incidere. Bisogna anzitutto ritrovare un’identità: se ci si
limita a quella rivendicativa ci si espone a una inevitabile frantumazione corporativa. Ma se invece si
vuole contare nelle scelte politiche generali non si può prescindere da una forte ripresa del percorso
unitario
di Pierre Carniti
Ha un futuro il sindacalismo confederale? Intorno a questo domanda è apparsa negli ultimi anni una
consistente letteratura, sia nazionale che internazionale. Dipinti spesso in passato come forti e minacciosi,
i sindacati dei paesi avanzati vengono attualmente considerati in declino. Secondo numerosi analisti, il
declino sarebbe causato dalla aggressività delle politiche neo-liberiste, dalla integrazione globale dei
mercati, dalla frantumazione del mercato del lavoro.
Nulla autorizza però a ritenere che il destino del sindacato sia segnato in modo chiaro ed ineluttabile.
Certo, in alcuni paesi (specialmente negli Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia) si è già
verificata una significativa diminuzione delle adesioni. In Italia la Cgil ha ammesso un calo degli iscritti:
secondo un rapporto interno, ad abbandonare la confederazione sarebbero soprattutto i giovani ed i
precari. Per la Cisl e la Uil non sono stati resi disponili dati. Ma si può presumere che anche per loro si
stiano verificando le tendenze in atto nella Cgil. Questo indicatore negativo è un segnale di perdita di
influenza del sindacato e di un decadimento al quale si dovrebbe cercare di porre rimedio con l’attivazione
di strategie appropriate ed efficaci. Purtroppo per ora non ci sono segni di una evoluzione in questo senso.
La prima misura che dovrebbe essere presa in considerazione (ed anche la più ovvia) consiste in un
sindacalismo più inclusivo. Capace cioè di rivolgersi concretamente a tutti i segmenti del lavoro che
cambia e di rappresentare quindi anche i lavoratori temporanei ed atipici. Vale a dire quella quota del
mondo del lavoro (sempre molto consistente) che non rientra nelle tradizionali modalità d’impiego ed a
cui il sindacato ha storicamente dato voce. Ovviamente si tratta di una iniziativa facile da enunciare e più
difficile da realizzare. Ma su cui è indispensabile investire creatività e risorse. Sia economiche che
umane.
La seconda è quella di conciliare la definizione ed il perseguimento di obiettivi di equità sociale con una
puntuale tutela delle condizioni di lavoro e della sua remunerazione. A questo fine si impongono alcune
considerazioni, sia sulle condizioni che possono permettere al movimento sindacale di incidere sulle
scelte di politica economica e sociale, che sul rapporto tra concertazione e contrattazione.
Incominciamo da quest’ultimo aspetto. Con alti e bassi, la concertazione ha alle spalle una esperienza che
dura ormai da oltre un quarto di secolo. I primi esperimenti risalgono infatti al periodo 76/79, con i
governi di Unità nazionale presieduti da Andreotti. Altri esercizi di concertazione sono stati realizzati con
il governo Fanfani (1983), poi con il governo Craxi (1984), infine con il governo Ciampi (1993). In tutte
queste occasioni la concertazione si è realizzata sulla base di uno scambio politico. Nella prima fase
l’oggetto dello scambio è stata la moderazione salariale in alternativa a politiche monetarie restrittive
(diversamente inevitabili in conseguenza dell’impennata dell’inflazione e del mutamento delle ragioni di
scambio indotto dalle crisi petrolifere). Poi la predeterminazione dell’inflazione, rapportandovi
coerentemente tutte le indicizzazioni, dai prezzi, alle tariffe, alle rendite, alla dinamica del salario
nominale (inclusa la scala mobile). Infine l’abolizione della scala mobile per accompagnare l’ingresso
della lira nell’euro e consentire una politica economica tendenzialmente più espansiva, in funzione di una
maggiore occupazione.
Come confermano tutte queste esperienze, la prima cosa da rilevare è che lo scambio politico presuppone
sempre un elevato grado di centralizzazione delle relazioni sindacali. Ma proprio per questa ragione, è del
tutto evidente che si tratta di una particolare modalità di rapporti utilizzabile solo in situazioni particolari
e per periodi di tempo circoscritti. Se, al contrario, la concertazione dovesse costituire una gabbia
permanente per le relazioni sindacali, diventerebbe inevitabile mettere in conto il rischio di una
disintegrazione delle organizzazioni sindacali e conseguenti iniziative rivendicative centrifughe. Cioè
iniziative destinate a svilupparsi fatalmente al di fuori e persino contro gli impegni assunti dal sindacato.
Cosa che costituisce sicuramente un problema.
La seconda considerazione è che concertazione e dialogo sociale, contrariamente a quanto si deduce dalla
vulgata mediatica, o anche dalle dichiarazioni di numerosi sindacalisti, non sono affatto sinonimi. Non si
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