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Infolampo: lavoro – evasione

lavoro007Perché le madri abbandonano il posto di lavoro

Le dimissioni delle donne non sono una questione privata, ma sociale. Bisogna promuovere la cultura di

genere, consolidare le reti dei servizi territoriali e istituire luoghi di ascolto preventivo per chi intende

dimettersi

di Lisa Gattini

Perché le madri abbandonano il loro posto di lavoro? È la domanda che ci si pone leggendo i dati

contenuti nella relazione annuale sulle convalide delle dimissioni e risoluzioni consensuali di lavoratrici

madri e lavoratori padri per l’anno 2016. Numeri importanti ed in crescita, segno quindi di elementi di

difficoltà che persistono e per i quali non si sono ancora

adottate le giuste contromisure.

Il contributo necessario della occupazione femminile al

prodotto interno lordo di ogni paese è ormai un dato

consolidato nella letteratura sul mercato del lavoro. Ma

sicuramente l’obiettivo del 75% della occupazione nel 2020

è un traguardo ancora molto lontano, che si traduce in

perdita di ricchezza collettiva.

Alla domanda una donna risponderebbe: guadagno poco, mi

costa più andare a lavorare che rimanere a casa; non riesco a

conciliare il lavoro con i miei figli a casa. Dimissionarsi

significa dunque avere un posto di lavoro e rinunciarvi per

entrare, nella maggior parte dei casi per le lavoratrici madri,

nelle schiere delle disoccupate prima e inoccupate poi. Se si

pensa che il livello di scolarizzazione delle donne è

mediamente superiore a quello maschile, che la capacità resiliente delle donne permette una alta

adattabilità a mansioni e funzioni diverse, che ormai in tutte vi è la consapevolezza dell’importanza della

indipendenza economica, dobbiamo veramente chiederci per quale motivo una donna rinuncia al reddito e

ad una sua realizzazione.

Un primo elemento crediamo stia nel fatto che le donne vengono per lo più occupate in ambiti di lavoro

povero, con scarse tutele e scarsa retribuzione (lavori di cura e settore servizi con contratti part time)

oppure in ruoli qualificati ma senza riconoscimento di status ed economico. Questo, in assenza di

politiche di sostegno al reddito e conciliative, rende spesso paradossalmente più remunerativo

l’abbandonare il lavoro.

Un secondo elemento sta nel modello organizzativo della produzione, specie nei servizi e commercio. Qui

la deregolamentazione è molto avanzata. Si pensi ai centri commerciali, anche in Emilia, dove le donne e

gli uomini vengono impiegati con una flessibilità di orario modello Toyota senza nessuna correlazione

con i tempi i delle scuole, degli asili, dei mezzi di trasporto. Si pensi al lavoro domenicale e festivo che si

traduce per molti nuclei monogenitoriali in una perdita secca di salario che va trasferito in una struttura a

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Lo Spi Cgil visita alla scuola

Falcone di Palermo

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Anche l’evasione non è uguale per tutti: gli effetti dei

paradisi fiscali sulla diseguaglianza

La misurazione della diseguaglianza di reddito e ricchezza all’interno dei paesi occidentali è stata per

decenni effettuata facendo quasi esclusivamente uso dei dati, sempre più dettagliati, rilevati in indagini

campionarie ad hoc (ad esempio, l’indagine sui Bilanci delle Famiglie Italiane condotta ogni due anni

dalla Banca d’Italia o quella EU-SILC – European Union Statistics on Income and Living Conditions –

coordinata annualmente da Eurostat in tutti i paesi della UE).

di Paolo Paesani e Michele Raitano

Studiare il livello della diseguaglianza e il suo andamento mediante le indagini campionarie può, tuttavia,

non essere sufficiente per fornire un quadro esaustivo del fenomeno dato che, da una parte, alcune

componenti di reddito o di ricchezza con distribuzione fortemente diseguale (ad esempio i redditi da

capitale e da impresa o il patrimonio mobiliare) sono più difficilmente rilevabili dagli intervistatori e,

dall’altra, i gruppi estremi della popolazione (i molto poveri, soprattutto se immigrati, e i molto ricchi)

tendono ad essere difficilmente inclusi nei campioni rilevati.

Se, dunque, tali indagini non riescono a rilevare con estrema precisione alcuni fattori aggravanti della

diseguaglianza, la sua misura potrebbe risultare sottostimata. Inoltre, se nel corso del tempo l’importanza

di questi fattori si accresce – ad esempio, se aumenta il numero di immigrati molto poveri, quasi

impossibili da campionare, o la quota e le risorse appropriate dai super-ricchi che sfuggono a qualsiasi

tipo di rilevazione campionaria – la stessa tendenza della diseguaglianza potrebbe apparire meno

accentuata di quanto effettivamente sia.

Per ovviare all’incapacità delle indagini campionarie di valutare quanto accade nei segmenti più elevati

della distribuzione, quelli dove potrebbe concentrarsi buona parte dei redditi e della ricchezza

complessiva, a partire dalla metà dello scorso decennio, con gli studi pionieristici di Tony Atkinson e

Thomas Piketty, si è iniziato a far uso delle statistiche ufficiali relative alle dichiarazioni dei redditi (o

della ricchezza nei paesi in cui esistono dettagliati archivi amministrativi sulle proprietà mobiliari e

immobiliari) per misurare la quota complessiva delle risorse detenuta dai più avvantaggiati (il top 1% o

0,1% o 0,01%). I dati sui top incomes hanno, ad esempio, consentito di evidenziare una crescita della

diseguaglianza (misurata come la quota del reddito dichiarato in un anno appropriata, ad esempio, dal top

1%) molto più accentuata di quella che si osserva solitamente mediante le indagini campionarie che,

come detto, non riescono a rappresentare con precisione ciò che accade agli estremi della distribuzione.

Per tale ragione, alcuni autori hanno iniziato a sperimentare tecniche che incrociano dati fiscali di fonte

amministrativa e dati campionari; le recenti stime di Stephen Jenkins segnalano come il già elevatissimo

indice di concentrazione di Gini dei redditi nel Regno Unito aumenti dell’8% quando ai dati campionari si

aggiunga ciò che accade a ricchi e super-ricchi.

Ma basterebbe includere nei campioni anche i più fortunati, o costruire immensi database di fonte

amministrativa dell’intera popolazione – come, da anni, si fa nei paesi del Nord Europa – per avere un

quadro effettivo dei livelli e delle tendenze della diseguaglianza di reddito e ricchezza e, dunque, delle

stesse graduatorie fra paesi? La risposta è purtroppo negativa. Anche i dati amministrativi, infatti, non

riuscirebbero “per definizione” a rilevare ogni fonte di reddito e ricchezza, a causa dell’evasione ed

elusione fiscale. E tali due fenomeni avrebbero un effetto aggravante sulla diseguaglianza laddove di essi

si avvantaggiassero (in termini di importi evasi o elusi) soprattutto gli individui più abbienti.

In un recente paper intitolato “Tax Evasion and Inequality”, Annette Alstadsæter, Niels Johanessen e

Gabriel Zucman (quest’ultimo autore di un’importante ricerca sui paradisi fiscali ripresa di recente sul

Menabò) hanno indagato come varia la diseguaglianza in Norvegia, Svezia e Danimarca – tre paesi

ritenuti a bassa evasione – quando si tenga conto delle componenti di reddito e ricchezza non dichiarate al

fisco.

I tre autori sottolineano come non bastino le verifiche fiscali a campione sulle dichiarazioni dei redditi per

avere un’effettiva immagine dell’estensione dell’evasione e di come questa si distribuisca fra cittadini più

o meno abbienti. A loro avviso, le verifiche a campione sottostimerebbero inevitabilmente l’evasione da

parte dei super-ricchi – contribuendo dunque a sottostimare l’effettiva diseguaglianza – in ragione delle

forme sofisticate di evasione fiscale cui essi fanno ricorso su consiglio di esperti fiscali e intermediari

finanziari specializzati. Gli autori notano, infatti, che per combattere l’evasione dei super-ricchi – che

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fiscali-sulla-diseguaglianza/