Da Infolampo: Alitalia – salari
Alitalia verso il commissario. Cgil: nuovo piano
industriale
Dopo il no dei lavoratori al pre-accordo, il cda della compagnia avvia l’iter per l’amministrazione
straordinaria speciale. Camusso: “Ancora oggi paghiamo le privatizzazioni fatte in questo Paese, che si
dimostrano disastrose anche a distanza di anni”
Alitalia va verso il commissariamento, il secondo della sua storia. Dopo la netta bocciatura (67 per cento
di no) da parte dei lavoratori del pre-accordo del 14 aprile scorso tra azienda e sindacati, il cda della
compagnia aerea (preso atto “dell’impossibilità di procedere
alla ricapitalizzazione”) ha avviato martedì 25 aprile l’iter
per l’amministrazione straordinaria speciale. Sarà
formalizzata dall’assemblea dei soci del 27 aprile o, più
probabilmente, da quella di martedì 2 maggio. A quel punto
il governo nominerà uno o più (fino a tre) commissari, il cui
compito sarà quello di cercare acquirenti o nuovi investitori,
in assenza dei quali si procederà al fallimento.
“Bisogna ripartire da un piano industriale credibile,
sostenuto anche dalle banche e dal governo, con l’ingresso di
Cassa depositi e prestiti”. Questa la proposta per Alitalia
fatta dal segretario generale della Cgil Susanna Camusso,
fatta all’indomani dell’esito del referendum tra i lavoratori
della compagnia aerea. “Bisogna chiedere – ha aggiunto – che si riapra la discussione sul piano
industriale, che è stato segnato dalla sfiducia dei lavoratori e da un gruppo che ha seguito tre
ristrutturazioni successive, tutte con esiti fallimentari”.
Per il segretario generale Cgil oggi ancora “paghiamo e scontiamo le privatizzazioni così come sono state
fatte nel nostro paese, che si dimostrano disastrose anche a distanza di anni”. Camusso ha poi concluso
rimarcando che l’amministrazione straordinaria e la messa in liquidazione dell’azienda “significa la
perdita di un patrimonio industriale per il paese, cosa che dobbiamo prima di tutto mantenere. Ma serve
un piano industriale differente”.
Il commissariamento dovrebbe durare circa sei mesi. In questo periodo il governo, dopo il via libera
dell’Unione Europea, concederà un “ponte finanziario transitorio”: sul tavolo ci sono già i 300 milioni di
aumento di capitale di Invitalia, che l’esecutivo aveva deliberato come “garanzia” per il piano.
L’esecutivo ha anche escluso ogni ipotesi di nazionalizzazione della compagnia. Al momento, comunque,
gli aerei Alitalia continueranno a volare: l’assicurazione è arrivata dall’Ente nazionale per l’aviazione
civile (Enac), che ha confermato l’esistenza delle “condizioni per il mantenimento della piena
operatività”.
“Oggi il tema è come provare a salvare una compagnia aerea dove ci sono 12 mila persone, ma anche
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I salari fermi dal ’95 bloccano l’economia
Fatta 100 la retribuzione reale media di un dipendente a tempo pieno nel 1995, nel 2006 l’indice aveva
raggiunto il valore di 101,5 e ad oggi non è cambiata. Frutto dell’accordo del ’93, necessario per
l’emergenza, ma che protratto nel tempo ha inceppato la crescita, innescando un circolo vizioso di bassi
consumi che scoraggiano gli investimenti
di Leonello Tronti
Anche in periodi di deflazione come quello in cui viviamo i salari reali non crescono. I dati Istat
confermano che la retribuzione lorda media di un dipendente a tempo pieno, calcolata a prezzi del 2015,
era pari nel terzo trimestre del 2016 a 2.464 euro mensili (poco più di 1.800 euro netti). Dieci anni prima,
nel terzo trimestre del 2006, era identica: 2.463 euro mensili.
Si dirà che il problema è la crisi che, colpendo le imprese due volte tra il 2008 e il 2013, ha proibito
qualunque crescita del potere d’acquisto dei salari. Ma se andiamo più indietro e guardiamo cos’è
successo prima, quando la crisi non c’era, l’Eurostat ci dice che fatta 100 la retribuzione reale media di un
dipendente a tempo pieno italiano nel 1995, nel 2006 l’indice aveva raggiunto il valore di 101,5, anche se
nel frattempo l’indice del reddito lordo prodotto dall’economia era passato da 100 a 118,3. Dunque le
retribuzioni italiane sono – da almeno 22 anni – rigide verso l’alto, insensibili alla congiuntura. Il
dipendente italiano a tempo pieno (quello fortunatamente non toccato dall’enorme crescita del lavoro
flessibile) guadagna oggi in termini reali più o meno quello che guadagnava nel 1995.
Perché in Italia i salari non crescono? La risposta è semplice: perché non è previsto che crescano. Il
modello contrattuale italiano stabilisce infatti che i contratti nazionali traguardino l’inflazione – ovvero
che i salari reali non crescano; e demanda l’ipotetica crescita dei salari reali ai contratti aziendali o
territoriali i quali, però, toccano a stento (e per cifre assai modeste) il 30% dei dipendenti delle imprese
private. Ne consegue che per il 70% o più dei dipendenti privati il potere d’acquisto dei salari è ancorato
ad eterno al valore del 1993, anno di varo del nostro bel modello contrattuale. Mentre per quelli che
hanno la fortuna di avere un contratto aziendale la crescita è mediamente modesta, molto modesta.
Le organizzazioni datoriali (con qualche lodevole eccezione) sostengono a gran voce che in questa
situazione di crisi i salari non possono aumentare perché non si può distribuire la ricchezza se non la si è
creata. Ebbene, è vero proprio il contrario. La ricchezza non si crea perché i salari sono bloccati, e i salari
bloccati bloccano i consumi, e i consumi bloccati fanno fallire le imprese e bloccano gli investimenti (ben
pochi investono in un paese che non cresce). Infine, gli investimenti bloccati rendono le imprese meno
competitive e più fragili, pronte a cadere come un castello di carte al primo soffio di un vento di crisi.
Sono dunque i salari bloccati a rendere le imprese fragili e non la fragilità delle imprese ad obbligare il
blocco dei salari. Finché non si spezza questo circolo vizioso la ripresa resterà asfittica, così com’è stato
dal 1995 ad oggi: le imprese continueranno a fallire, i disoccupati continueranno ad aumentare, la
situazione sociale (e politica) diverrà sempre più insostenibile.
La politica salariale dovrebbe attenersi rigorosamente alla sua “regola d’oro”, che richiede di far crescere
le retribuzioni reali nella stessa misura della produttività del lavoro, possibilmente secondo precisi
obiettivi di sviluppo, ovvero con una visione di anticipo e non ex post (si veda il contratto incentivante
FCA-EMEA). La regola è d’oro perché assicura la massima crescita dei salari (e dei consumi, che da essi
dipendono) senza esercitare spinte inflazionistiche sui profitti (spinte che, peraltro, oggi sarebbero utili
alla ripresa). Qualunque deviazione da questa norma (e l’Italia è in deviazione dal 1993) può essere
giustificata solo in una logica esplicita di “scambio politico” (per usare un concetto caro a Ezio
Tarantelli): in funzione di ben definiti obiettivi di investimento, occupazione, riqualificazione del lavoro o
altro. Così come chiedeva la seconda parte, mai applicata, del Protocollo del 1993. E comunque dovrebbe
essere sempre rigorosamente temporanea, per evitare gli effetti strutturalmente negativi sulla crescita che
l’economia italiana patisce da allora.
Non dubito dell’immediato valore che il Protocollo ebbe nel 1993 e dintorni. L’economia doveva
fronteggiare la più grave crisi occupazionale del dopoguerra (1992-95), connessa con l’adesione al
“grande mercato unico europeo”, e doveva al tempo stesso accomodare senza scosse l’ondata di
inflazione importata che aveva origine nell’ultima grande svalutazione della lira (settembre 1992), operata
per assicurare al Paese l’entrata nel “Club dell’euro” al primo turno. Ma il modello contrattuale andava
riformato già nel 1998, sulla base dei risultati della Commissione Giugni, che tra l’altro perorava la
diffusione della contrattazione territoriale a livello regionale, provinciale e di distretto, proprio per
diffondere la crescita dei salari reali e accrescere la sensibilità macroeconomica delle parti sociali anche a
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