Da Infolampo: Ape – lavoro
«Aspettiamo i decreti sull’Ape»
Conclusa la fase uno del tavolo tra governo e sindacati sulla previdenza. Per la Cgil “giudizio positivo”
sul metodo, anche se “il pezzo di carta non lo abbiamo ancora visto”. Restano criticità sulla platea, ma si
apre la discussione sui giovani
Il metodo va bene, ma per una valutazione servono i testi dei decreti. Questo è in sintesi il giudizio della
Cgil sull’incontro di oggi (23 marzo) tra sindacati e governo
sulle pensioni. Il tavolo ha concluso la prima fase del
confronto, e dato il via alla seconda. Due nuovi appuntamenti
sono stati fissati per il 6 ed il 13 aprile prossimi.
“Abbiamo finalmente aperto la discussione sulla fase due e
sulle pensioni per i giovani. Da lungo tempo poniamo il tema
sulla loro prospettiva previdenziale”, ha sottolineato il
segretario generale del sindacato di Corso d’Italia Susanna
Camusso, al termine dell’incontro al ministero del Lavoro.
Sulla chiusura della fase uno, relativa al confronto sulle
misure inserite nell’ultima legge di bilancio, a partire dall’Ape,
l’anticipo pensionistico, il giudizio è positivo sul metodo, ma
“il pezzo di carta dei decreti attuativi non lo abbiamo ancora
visto”. Solo a quel punto il sindacato “trarrà una valutazione
conclusiva”.
Restano comunque due elementi di criticità, che secondo
Camusso “riducono la possibilità per la platea dei lavoratori
in difficoltà di accedere” all’Ape sociale. “Uno – ha ricordato Camusso – é la richiesta di sei anni
consecutivi per l’accesso che rischia di essere un criterio di esclusione”. Su questo punto la Cgil ha invece
proposto un’interpretazione “sul fatto che la continuità sia su un arco di tempo più ampio”, perché
“l’orientamento del governo sui sette anni è insufficiente”. L’altro problema riguarda invece i disoccupati
che hanno concluso un contratto a tempo determinato. Questo “fa cadere il diritto all’Ape sociale” e
quindi “rischia di essere una grande restrizione della platea”.
“I temi sul tavolo sono tanti – scrive lo Spi Cgil sul suo account Facebook – . Ci occuperemo delle
pensioni dei giovani, del meccanismo di rivalutazione, delle pensioni integrative, dell’aspettativa di vita,
del lavoro di cura, della separazione tra assistenza e previdenza e della governance dell’Inps. Si conferma
quindi la volontà del governo di discutere con i sindacati dei tanti problemi che riguardano milioni di
persone. E questo non può che essere positivo. Come sempre valuteremo l’esito di questo confronto nel
merito”.
Sui dei decreti attuativi, in ogni caso, “ci saranno problemi di attuazione”, ha fatto sapere Marco
Leonardi, consulente economico di Palazzo Chigi, che ha però aggiunto: “Siamo impegnati a trovare le
soluzioni perché lo strumento deve funzionare”. Leonardi infine riferisce che le soluzioni ai problemi
Leggi tutto: http://www.rassegna.it/articoli/camusso-aspettiamo-i-decreti-sullape
Donne, lavoro e maternità nelle
Marche
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Dare lavoro, non reddito. Liberiamoci da alcuni
pregiudizi
“Garantire uno stipendio a tutti non risponde all’articolo 1 della nostra Costituzione che parla di lavoro,
non di stipendio. Il lavoro non è solo stipendio, ma anche dignità. Il reddito di cittadinanza nega il primo
articolo della nostra Costituzione”.
di Elena Granaglia
Così si è espresso Matteo Renzi in un’intervista rilasciata al Messaggero il 26 febbraio scorso. Una volta
tanto, però, il punto è largamente condiviso anche da esponenti/ex esponenti della sinistra del PD e da
grande parte dei sindacati, riflettendo un sentimento radicato nel nostro paese, così radicato da avere
contribuito all’assenza perfino di un reddito minimo, circoscritto ai più poveri. Com’è noto, l’Italia,
insieme alla Grecia (che peraltro ne ha avviato una sperimentazione) è l’unico paese nell’Europa a 28
priva di qualsiasi rete di ultima istanza per i poveri. Anche per questo, ben il 44% dei poveri assoluti non
riceve, in Italia, alcuna assistenza (il dato è in Irs, Ripensare il welfare). Ora, qualcosa potrà cambiare,
grazie all’introduzione del reddito d’inclusione. Ma, e su questo ritorneremo nei prossimi numeri del
Menabò, il reddito d’inclusione rimane una misura categoriale, limitata a famiglie con figli, la quale
beneficia meno della metà dei poveri assoluti. Dunque, resta intatta l’eccezionalità italiana rispetto
all’assenza di un reddito minimo per tutti i poveri.
Seppure espressi in modo spesso indistinto, due mi paiono i convincimenti principali a sostegno della
posizione pro lavoro. Da un lato, dare soldi, anziché lavoro, significherebbe offrire un contentino, una
mera compensazione monetaria in cambio della rinuncia a una capacità umana fondamentale quale è il
lavoro, che non dovrebbe essere contrattabile. Miste in questa posizione, vi sono poi due ragioni, che
andrebbero anch’esse meglio distinte: l’una è centrata sulla natura di opportunità del lavoro e l’altra sulla
natura di virtù, come nella prospettiva del cosiddetto welfare generativo, secondo cui chi non lavora è un
individuo di serie b.
Dall’altro lato, ricevere reddito e dare nulla in cambio equivarrebbe a puro parassitismo. Gli oziosi
godrebbero impunemente di un reddito graziosamente offerto da chi più si sforza. Nei termini di Rawls,
chi spende la giornata a fare il surf sulle spiagge di Malibu vivrebbe alle spalle di chi lavora. Le relazioni
di reciprocità alla base del nostro essere società sarebbero palesemente violate.
Nel primo caso, la violazione danneggia chi è privo di lavoro. Nel secondo, a essere danneggiati
sarebbero i lavoratori.
1. Hassel, in un recente pezzo su Social Europe (Unconditional Basic Income Is A Dead End), ben
esprime questi convincimenti quando afferma che, con il reddito di cittadinanza, “la vita diventerebbe
ancora più difficile per i giovani che siano svantaggiati in termini di istruzione – i giovani provenienti da
famiglie di operai e di migranti. Il dolce veleno del reddito di cittadinanza li accompagnerebbe in ogni
passaggio della loro vita scolastica e nella formazione al lavoro. Quando è loro chiesto cosa vorrebbero
fare, i ragazzi che vivono nelle zone di Berlino con un’elevata percentuale di famiglie di classe operaia e
migranti, come Neukölln, già oggi spesso rispondono che faranno leva sui sussidi. In futuro, diranno: “Mi
prendo il mio reddito di cittadinanza”. I numeri aumenteranno all’aumentare di tale reddito. L’impegno a
investire su se stessi e a migliorare le proprie vite grazie a un lavoro qualificato sarà messo alla prova
ogni giorno” (trad. mia).
La mia opinione è che entrambi i convincimenti contengano, in realtà, elementi di pregiudizio, che
andrebbero evitati. Due sono le osservazioni che propongo.
La prima osservazione riguarda la domanda di lavoro oggi. Come ricordano D. Sage e P. Diamond, in un
rapporto peraltro critico del reddito di cittadinanza (Europe’s New Social Reality: the Case Against
Universal Basic Income, 2017, www.policy-network.net), se si applica al mercato del lavoro europeo la
stessa metodologia applicata a quello statunitense da C. Frey e M. Osborne (The Future of Employment:
How Susceptible are Jobs to Computerisation? 2013,
http://www.oxfordmartin.ox.ac.uk/publications/view/1314) ben il 53% dei lavori oggi esistenti
nell’Unione Europea sarebbe nel prossimo futuro a rischio di automazione (il rischio sarebbe superiore di
oltre 10 punti a quello per gli Stati Uniti). Certamente, politiche idonee di investimento possono
aumentare la domanda di lavoro. Ma occorre tempo prima che esse diano i loro frutti; i limiti ambientali
gettano più di una perplessità rispetto a un modello di crescita basato sulla moltiplicazione dei beni di
consumo privato e, per quanto circoscrivibile dalle politiche, la tendenza alla riduzione del lavoro a causa
Leggi tutto: http://www.eticaeconomia.it/dare-lavoro-non-reddito-liberiamoci-da-alcuni-pregiudizi/