Da Infolampo: Poveri c’è un piano – IL mondo rallenta
Poveri, finalmente c’è un piano
L’obiettivo è di introdurre una misura in grado di sostenere i soggetti in situazione di indigenza assoluta.
Per le organizzazioni del sociale le risorse stanziate non sono ancora sufficienti ad affrontare nella sua
complessità il problema della povertà
di Giorgio Frasca Polara
Le drammatiche vicende in Puglia, a Nizza e poi in Turchia e negli Usa hanno praticamente fatto passare
sotto silenzio l’approvazione, in prima lettura da parte della
Camera, della legge-delega sul contrasto alla povertà. Si tratta di un
provvedimento collegato alla legge di stabilità 2016 che avvia un
intervento strutturale di lotta alla povertà con risorse (600 milioni
quest’anno, un miliardo l’anno dal 2017) che indicano
un’importante inversione di tendenza: è la prima volta che in un
piano di lotta alla povertà c’è in Italia un capitolo di spesa
permanente nel bilancio dello Stato.
La caratteristica fondamentale del provvedimento consiste
nell’istituzione del cosiddetto reddito di inclusione, composto da
due elementi: un sostegno economico e una componente di servizi
alla persona. Esso ha carattere universale ed è condizionata alla
prova dei mezzi (Isee, tenendo conto dell’effettivo reddito
disponibile e di indicatori della capacità di spesa) nonché
all’adesione ad un progetto personalizzato di attivazione e di
inclusione sociale. In sostanza, il reddito di inclusione è una misura
che richiede, da parte del nucleo familiare che riceve il sostegno
finanziario, un impegno che può essere semplicemente quello di
mandare i figli a scuola se non è possibile trovare un posto di lavoro
ma che comunque richiede anche un impegno a cercare un posto di lavoro. E’ lo strumento presente in
altri paesi europei. Con questo provvedimento l’Italia chiude il periodo delle sperimentazioni nella lotta
alla povertà e l’approccio di tipo emergenziale per arrivare alla prima misura a sostegno delle persone in
situazione di povertà assoluta, in linea con quanto avviene nel resto dell’Europa.
L’istituzione del reddito di inclusione è considerata “una decisione storica” dall’Alleanza contro la
povertà (ne sono fondatori le tre grandi organizzazioni sindacali, le Acli, l’Anci, la Caritas, la Conferenza
delle regioni e moltissimi altri organismi di volontariato e onlus), e “un passaggio epocale per le politiche
sociali in Italia” dal Forum del terzo settore. E tuttavia i due organismi (che hanno collaborato
all’elaborazione del provvedimento) richiamano il Parlamento alla necessità di aumentare le risorse
stanziate che rappresentano certo una cifra importante ma non ancora sufficiente ad affrontare nella sua
complessità il problema della povertà. Da qui la richiesta che le risorse arrivino nel tempo a coprire non
solo quel milione di persone ad oggi indicato come potenziale beneficiario del reddito di inclusione ma
http://www.radioarticolo1.it/articoli/2016/07/21/7836/poveri-finalmente-ce-un-piano
www.eguaglianzaeliberta.it
Il mondo rallenta ma forse non è un male
Negli ultimi anni il ritmo della crescita mondiale è molto diminuito. Ha pesato la forte frenata del
commercio, dovuta soprattutto al nuovo corso cinese. Il problema dell’occupazione, che non è
necessariamente correlato alla crescita, dovrà essere affrontato con nuove soluzioni
di Attilio Pasetto
E’ ormai chiaro che, dopo la Grande Recessione, siamo entrati in una nuova fase dell’economia mondiale
caratterizzata da tassi di crescita più bassi, rallentamento del commercio mondiale, ridimensionamento
delle catene globali del valore, difficoltà negli accordi di liberalizzazione multilaterale degli scambi e
aumento delle tendenze protezionistiche. E’ il ritorno a una fase simile a quella che precedette la crisi del
2008-2014, denominata anche come la Grande Moderazione, o ci troviamo di fronte a quella che
Prometeia chiama la Grande Incertezza? Oppure ancora siamo finiti dentro l’incubo della cosiddetta
“stagnazione secolare” (vedi il mio articolo su E&L)?
Osserviamo il fenomeno prendendo come riferimento l’andamento degli scambi internazionali. Il
commercio mondiale, secondo le elaborazioni di Prometeia, è cresciuto a un tasso medio annuo dell’8,2%
nel decennio 1991-2000, poi sceso al 5,9% negli anni pre-crisi 2001-2007 e diminuito della metà al 2,9%
durante la crisi 2008-2014. Per il triennio 2015-2018 Prometeia prevede un ulteriore ridimensionamento
al 2,6%. Altri previsori sono un po’ più ottimisti, ma la sostanza non cambia: da cinque anni Pil e
commercio mondiali stanno crescendo allo stesso ritmo (basso), quindi con un’elasticità pari a uno, e
almeno per il prossimo anno dovrebbe ancora essere così. Prima della crisi gli scambi internazionali
crescevano a una velocità più che doppia rispetto al Pil, con un’elasticità pari a 2,3.
Ma da che cosa è dipesa la riduzione dell’elasticità del commercio mondiale al Pil? Una nota del Centro
Studi Confindustria (Emergenti, Cina in testa, guidano la frenata del commercio mondiale di C. Pensa e
M. Pignatti) ha calcolato che, rispetto alla media pre-crisi, nel periodo 2013-2015 la variazione
dell’elasticità dell’import mondiale al Pil è stata pari a -1,3 punti percentuali. Lo stesso studio ha
scomposto l’elasticità degli scambi mondiali al Pil in tre componenti: lo spostamento del baricentro delle
importazioni mondiali dai paesi avanzati ai paesi emergenti; la diversa crescita del Pil nelle tre principali
macroaree (avanzati, Cina e altri emergenti); la dinamica specifica dell’import in queste tre macroaree.
Dall’analisi econometrica emerge che i primi due fattori, che sostanzialmente rappresentano l’effetto di
ricomposizione del commercio e del Pil mondiali dovuto al maggior ruolo assunto dai paesi emergenti,
spiegano relativamente poco (rispettivamente -0,27 e -0,25 punti di elasticità). L’elemento determinante è
lo shock negativo avvenuto sulle importazioni non imputabile alla dinamica del Pil. Più in particolare
questo shock negativo (-0,79 punti in totale) è dovuto quasi per la metà alle minori importazioni della
Cina (-0,36), seguito dal minor import degli altri paesi emergenti (-0,29), mentre l’incidenza dei paesi
avanzati è modesta (-0,14). Da notare che l’ampiezza dello shock è correlata inversamente al peso di
ciascuna economia sulle importazioni mondiali: la Cina rappresenta infatti “solo” il 10,3% dell’import
mondiale, gli altri paesi emergenti il 26,9% e i paesi avanzati ben il 62,8%.
Queste evidenze mostrano quanto sia impressionante la forza della Cina e la sua capacità di condizionare,
nel bene e nel male, l’economia mondiale. E spiegano anche perché gli Stati Uniti abbiano voluto con
forza il TTP (il mega accordo commerciale transpacifico) escludendo la Cina e vogliano rafforzare i
legami con l’Europa attraverso il TTIP (il mega accordo commerciale transatlantico). Attenzione però!
Perché, come rileva Romano Prodi in un articolo su “Il Messaggero”, la firma del TTP per ragioni
elettorali appare più lontana (tutti e tre i candidati alla presidenza americana l’hanno criticato) e quella del
TTIP è tutt’altro che scontata per la crescente opposizione che sta incontrando. Di qui il riemergere di
tendenze neo-protezioniste in larghi strati dell’opinione pubblica internazionale. Anche il risultato del
referendum su Brexit va in questa direzione.
Mentre soffia più forte il vento neo-protezionista, il processo di frammentazione delle catene globali del
valore sembra aver raggiunto un limite “fisiologico”. La grande protagonista di questo fenomeno di de-
globalizzazione è sempre la Cina, che sta drasticamente riducendo l’acquisto di beni intermedi e di beni
d’investimento dal resto del mondo. Le importazioni dei primi, che rappresentano i due terzi dell’import
cinese, sono scesi, secondo Confindustria, dal 17,6% del Pil nel 2004 al 13% nel 2011 e all’8,4% nel
2015, mentre quelle dei secondi, che costituiscono il 17% delle importazioni di Pechino, sono passate dal
5,5% del Pil nel 2004 al 3,1% nel 2011 e all’1,9% nel 2015. Molte delle importazioni di beni intermedi e
di investimento vengono sostituite da produzioni interne cinesi. In tal modo le catene del valore si
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