Da Infolampo: Impreseinrosa e Busta arancione
Aumentano le donne manager ma contano meno. Specie nelle grandi aziende la resistenza maschile non
demorde. E il Sud ha molte donne capaci nell’impresa, eppure per loro non c’è quasi spazio e per
ricoprire ruoli apicali sono costrette a migrare
di Silvia Garambois
Istituti di ricerca internazionale, l’uno più prestigioso dell’altro, e persino il Fondo monetario
internazionale, continuano a ripetere che le aziende se hanno donne al vertice funzionano meglio. In
queste analisi non si preoccupano affatto di questioni di parità: guardano solo ai risultati di business, al
soldo, e stimano un reddito netto tra l’8 e il 12% in più quando nei consigli d’amministrazione ci sono
donne a far di conto, soprattutto in settori ad alta manodopera femminile, nelle industrie hi-tech e in
quelle a forte creatività.
In Italia secondo gli ultimi dati, le donne manager aumentano:
sono ormai al 29%, cresciute sensibilmente anche nell’ultimo
anno. E qui finiscono le buone notizie. Già, perché le donne
manager sono di più ma perdono potere: solo un anno fa il
14% di loro era amministratrice delegata, oggi quel dato è
sceso all’11%. E il 40% delle aziende non ha donne in ruoli di
direzione.
Di più: è la piccola e media impresa ad essere soprattutto
affidata a dirigenti donne, nelle grandi aziende la resistenza è
maggiore.
C’è anche un altro elemento, evidenziato in una ricerca
dell’International Business Center (IBR), che fa riflettere
amaramente: il Sud ha molte donne capaci nell’impresa, ma
per loro non c’è spazio nelle aziende, e per fare le manager
sono costrette a migrare. In Calabria, Basilicata, Puglia e Campania le donne alla guida delle aziende sono
mosche bianche. All’opposto, Lombardia, Lazio, Toscana ed Emilia Romagna sono le regioni che
maggiormente “importano” le manager da altre regioni (in Lombardia sono 90mila le donne nate al Sud e
titolari di cariche importanti; nel Lazio sono il 25%).
E’, complessivamente, una fotografia impietosa di un mondo delle aziende vecchio, ingessato, incapace di
modernizzarsi: non c’è solo la discriminazione femminile dettata da culture retrograde, dall’incapacità di
lasciare la guida in settori tradizionalmente maschili – e questo si vede particolarmente al Sud; c’è anche
la sordità alle sollecitazioni che vengono da quegli studi che guardano solo all’ottimizzazione delle
risorse e in cui si registrano – ad esempio – le particolari capacità di innovazione del management
femminile. Un’altra foto di un’Italia che non sa ripartire.
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Tre new entry nella
Segreteria nazionale Spi-Cgil
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La busta arancione: ecco come funziona nel resto
d’Europa
A causa della crisi il diritto all’informazione ha preso piede nei Paesi dell’Ue, fino a diventare una vera e
propria “missione” degli istituti previdenziali. Strategie grosso modo analoghe, basate sulla combinazione
di più strumenti di comunicazione
di Carlo Caldarini, Esperienze 29 aprile 2016
Essere informati della propria situazione previdenziale è un diritto. Un diritto di tutti i lavoratori e, più in
generale, di ogni persona iscritta a un regime di sicurezza sociale. Che non attiene soltanto alle regole
generali del sistema pensionistico a cui si afferisce, ma più precisamente alla propria situazione personale,
passata, presente e – soprattutto – futura. E più precisamente al legame esistente tra lavoro, versamenti
contributivi e importo della pensione.
La parola “pensione” sta diventando, infatti, sempre più sinonimo d’incertezza: un numero crescente di
persone non ha neppure una vaga idea di quando raggiungerà il traguardo dell’età pensionistica,
dell’importo della prestazione che riceverà una volta raggiunta l’età della pensione, e se percepirà
davvero una prestazione in denaro alla fine della propria carriera lavorativa. La crisi economica e
finanziaria, con le politiche di austerità e con le riforme dei sistemi pensionistici, che in tutti i paesi si
sono susseguite a catena, non ha fatto che aggravare questa situazione e rendere l’incertezza più vasta e
più profonda.
Ed è proprio sotto gli effetti della crisi che questo diritto all’informazione sta prendendo sempre più corpo
nei paesi dell’Unione europea, fino a diventare a tutti gli effetti una vera e propria “missione” degli istituti
previdenziali. In un certo senso, è come se questi cercassero di arginare il danno, restituendo – sotto
forma di informazione – una parte almeno di quello che i propri assicurati hanno perso, o perderanno, in
denaro. In linea di principio, un esercizio di trasparenza da parte dell’amministrazione dello Stato e anche
un modo per responsabilizzare l’assicurato.
Nei momenti di congiuntura favorevole, soprattutto, e quindi di maggiore sicurezza economica, attraverso
l’informazione il lavoratore prende conoscenza della propria situazione previdenziale e viene sollecitato a
fare delle scelte maggiormente consapevoli circa lo sviluppo della propria carriera: interruzioni, tempo
parziale, cambiamenti di regime, contributi volontari, previdenza complementare ecc. La gestione
dell’informazione tende invece a diventare più delicata e opaca nei momenti di crisi e di incertezza
economica.
Il surplus d’informazione – se viene dispiegato – finisce spesso per essere un modo per rassicurare i futuri
pensionati, per creare consenso attorno alle riforme e legittimare, quindi, il sistema in vigore. Ma quando
si manomette continuamente la normativa previdenziale, come succede da tempo in Italia, con scelte
contraddittorie e confuse, togliendo peraltro ogni residuo di flessibilità in uscita dal lavoro (vedi la legge
Monti-Fornero), l’informazione previdenziale diventa un’operazione abborracciata, che alimenta
sentimenti di delusione e di rabbia contro la classe politica, incapace di imprimere un orientamento
omogeneo alle scelte legislative, spesso dettate dal bisogno di far quadrare i conti del bilancio dello Stato,
senza considerare gli altri indicatori, come la disoccupazione e la scarsa occupabilità dei giovani (in Italia,
i Neet sono oltre due milioni di persone).
Può essere utile allora, mentre 150mila cittadini italiani stanno per ricevere la loro prima “busta
arancione”, fare una rapida ricognizione di come gli altri Paesi europei hanno affrontato la medesima
questione prima di noi. A partire dalla Svezia, dove nel 1999 la “busta arancione” è nata, per creare
maggior consenso attorno a un’importante riforma delle pensioni, diventando poi un esempio per molti
altri paesi. Con questo sistema l’agenzia svedese delle pensioni trasmette automaticamente ogni anno a
tutti i cittadini residenti, a partire dall’età di 28 anni, l’estratto conto della propria pensione, comprensivo
di una stima dell’importo della rendita futura basata su tre ipotesi di età anagrafica al momento della
pensione (a 61, 65 o 70 anni) e su due ipotesi di andamento dell’economia (crescita compresa tra 0% e
2%).
Non solo. La Svezia è anche il Paese con la più alta percentuale di persone aventi accesso a Internet
(insieme a Danimarca e Paesi Bassi), e dove molte pratiche con la pubblica amministrazione sono svolte a
distanza. La stessa “busta arancione” contiene anche le istruzioni per accedere al sito Internet della cassa
di previdenza e da lì consultare la propria situazione previdenziale o comunicare con gli uffici
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