È SOLO LA VOCE CHE RESTA Le donne-poesia di Iran, Afghanistan, Kurdistan e Palestina
“Malgrado il silenzio che abito da sempre, / il mio cuore non ha dimenticato i canti, / e io non smetto
di sussurrare parole di libertà. / Penso al giorno in cui uscirò da questa gabbia, / quello sarà un giorno
di festa: / finalmente libera da questa solitudine / declamerò canti ebbri di gioia. / Non sono un fragile
pioppo che trema nel vento, / sono una figlia dell’Afghanistan / e ho il diritto di gridare”: recitano gli
ultimi versi di Il diritto di gridare, componimento della poetessa afgana Nadia Anjuman, nata nel 1980 a
Herat. Quando, nel 1996, dopo una devastante guerra civile, salgono al potere i Talebani, Nadia, come
molto altre donne afgane, si vede di colpo negato qualsiasi diritto: il divieto assoluto di uscire di casa
non accompagnata da parenti, di parlare con un estraneo di sesso maschile, di praticare lavori fuori delle
mura domestiche, di avere un’istruzione, di andare in bici, di truccarsi, di indossare tacchi, di uscire sui
balconi di casa, di praticare sport, e l’obbligo di indossare il burqa trasformano le donne afgane in “non
esseri viventi”, come scrive Anjuman in un’altra sua poesia. La donna diventa “un corpo che va
occultato, una vita che va annientata. / Una voce che va soffocata”. La donna che contravviene a questi
divieti si macchia di un reato contro la morale, e può essere punita con la frusta, nei casi più gravi con la
lapidazione. Pochissime sono le attività considerate lecite per le afgane, tra queste il cucito. Nadia ha
sedici anni e si iscrive al circolo dell’Ago d’Oro, ufficialmente per partecipare a lezioni di sartoria. Il
circolo è in realtà un luogo di resistenza clandestina, dove le donne possono leggere testi proibiti e
confrontarsi con i docenti che sono lì a rischiare, con le allieve, la vita. In quelle lezioni segrete, una
giovane Nadia Anjuman colpisce per il suo talento artistico il professore di letteratura Muhammad Ali
Rayhab. È lui a incoraggiarla a scrivere versi, ad ascoltare la sua voce, a maturare il sogno di diventare
una poetessa, come quelle che leggeva tre pomeriggi a settimana a costo della vita. La storia di Nadia
Anjuman è la storia di una fiducia incrollabile nella parola. Di un sogno che vuole diventare realtà, a
ogni costo. Quando, nel 2001, il regime talebano cade, Nadia decide di proseguire gli studi: si iscrive alla
facoltà di Lettere di Herat. Dopo la laurea, nel 2005, Nadia Anjuman pubblica il suo primo libro di
poesie, Fiore di fumo, che ottiene un notevole successo in Afghanistan e viene diffuso anche in Iran e in
Pakistan. Nello stesso anno sposa il compagno di studi Farid Ahmad Majid Neia, come lei laureato in
letteratura. Ma Neia, pur essendo un uomo colto, non vede di buon occhio il fatto che Nadia scriva
poesie. Il 4 novembre del 2005 Nadia e suo marito hanno una violenta discussione. Quella notte Farid
la picchia fino a farle perdere conoscenza. Diverse ore dopo, l’uomo prende un taxi e porta la moglie in
ospedale. L’autista del taxi avrebbe dichiarato alle autorità che la donna era già morta quando era stata
messa nel veicolo. L’uomo invece dichiarò che la moglie aveva assunto del veleno, ma impedì ai medici
di effettuare l’autopsia. Fu condannato ma subito rilasciato, dopo pressioni dei capi tribali della famiglia
della donna. La morte di Nadia Anjuman fu ufficialmente considerata un suicidio e il figlio della coppia
affidato alla custodia paterna.
A diciannove anni dalla morte della poetessa, la situazione in Afghanistan non è affatto cambiata, e così
in Iran. Le donne iraniane e afgane continuano a essere “ragazze isolate del secolo / condottiere
silenziose, sconosciute alla gente”, e continuano a pagare con la vita il loro diritto a esistere, ad avere
una voce. Se è vero, come scrive la celebre poetessa iraniana Forugh Farrokhzad, che “è solo la voce
che resta”, verso che dà il titolo all’evento del 24 novembre del festival “BookMarchs – L’altra voce”,
allora è alla voce che torneremo, alla voce che si fa poesia e canta il diritto di esistere, alla voce che si fa
rivoluzione e resistenza, contro la violenza dell’uomo e del regime.
I versi fin qui citati di Nadia Anjuman sono stati tradotti da due ragazze afgane, l’una insegnante di
lettere e l’altra giornalista, arrivate in Italia con uno dei corridoi umanitari organizzati all’indomani del
ritiro delle truppe statunitensi e della coalizione NATO dall’Afghanistan, nel maggio 2021, e
dell’occupazione di Kabul, il 15 agosto, da parte dei Talebani. Queste e altre poesie verranno
“declamate” a Petritoli il 24 novembre prossimo, alla vigilia della giornata internazionale contro la
violenza sulle donne, in occasione di “È solo la voce che resta: le donne-poesia di Iran, Afghanistan,
Kurdistan e Palestina”, evento organizzato da “BookMarchs – L’altra voce” per “Infiorescenze”,
l’edizione 2024 del festival, in collaborazione con Teatro Rebis di Macerata e l’IC Pagani di
Monterubbiano. L’incontro, patrocinato dal Comune di Petritoli, dal Progetto Sai “Era Domani”, dalla
Cooperativa Nuova Ricerca Agenzia Res e dal Centro Studi Danilo Dolci, e sostenuto dal Banco
Marchigiano, proporrà una formula ibrida che vedrà la traduzione, il teatro e la musica unirsi in nome
della poesia per proporre un’alternativa di pace alla violenza subìta dalla donne di questi Paesi, dilaniati
dalla guerra, e dalle donne di tutto il mondo.
L’evento, rivolto alle studentesse e agli studenti della Secondaria di primo grado di Petritoli e alla
cittadinanza tutta, vedrà come ospiti Serena Abrami (musicista e cantautrice), Meri Bracalente (attrice e
autrice), Enrica Fei (arabista, scrittrice e traduttrice), Francesco Marilungo (traduttore dal curdo e dal
turco) e alcune allieve dell’IC Pagani, in dialogo con Stella Sacchini, traduttrice e direttrice artistica del
festival.
Si tratterà di un grande evento corale dedicato alla poesia al femminile a partire dalla figura di Joyce
Lussu, una donna che ha fatto della traduzione uno strumento di militanza politica, di lotta contro la
sopraffazione, e l’ha fatto a partire dalla poesia: attivista impegnata sul fronte umanitario e
anticolonialista, scrittrice, poetessa, traduttrice, vissuta a lungo in terra marchigiana, Lussu tradusse e
introdusse in Italia poeti sconosciuti provenienti dalle più disparate culture e regioni del globo. Joyce
non conosceva tutte queste lingue, ma tradusse seguendo un’intuizione luminosa per il tramite del
francese e dell’inglese, che fungevano da lingue di supporto. Nel corso dei laboratori di traduzione
(“Tradurre in classe” e “Attraversamenti”) che il festival propone da anni negli istituti scolastici della
zona, la responsabile del progetto, Stella Sacchini, applica un metodo simile, soprattutto quando si tratta
di poesie in lingue meno note in questa parte di mondo, come l’urdu, il dari, il cinese, il tagalog o il
singalese. In questo caso, per verificare il lavoro di traduzione degli studenti e delle studentesse, si avvale
di “lingue ponte”, come l’inglese, il francese o lo spagnolo, oppure di “persone ponte”, ossia colleghi
traduttori da quelle lingue o interpreti e mediatori linguistici. L’importante è stabilire una connessione,
creare un terreno di dialogo su cui si possano innestare queste nuove piante. Così le piante produrranno
nuovi getti, dando vita nel tempo a sistemi più complessi, o, per restare nella metafora botanica, ad
aggruppamenti di rami che portano fiori nuovi e profumatissimi: le “infiorescenze” che danno il nome
all’edizione 2024 del festival, dedicata alla vita e all’opera di Danilo Dolci nel centenario della sua
nascita.
Queste nuove infiorescenze, ovvero le poesie che verranno recitate durante l’evento di Petritoli, tradotte
à la Joyce dalle protagoniste dell’evento sotto la supervisione di Stella Sacchini in laboratori casalinghi,
nati spontaneamente e resi possibile dalla presenza di Marco Milozzi, operatore dell’accoglienza e
collaboratore del progetto, hanno prodotto, altrettanto spontaneamente, nuovi “getti”, ovvero la nascita
di un “Laboratorio permanente di traduzione poetica”, che continuerà a “fiorire” anche dopo l’evento,
ovunque ci sarà terreno fertile.
In occasione di quest’evento il festival intende inoltre presentare il tema della violenza contro le donne
ribaltando la prospettiva e trasformando le donne, le “vittime” della violenza, in protagoniste capaci di
esprimere la propria interiorità e capacità di resistenza attraverso la voce poetica. In un periodo storico
dilaniato da guerre e oppresso da totalitarismi, Paesi come l’Afghanistan, l’Iran, il Kurdistan e la
Palestina stanno esprimendo un’interessante produzione artistica e poetica grazie al lavoro e alla
sensibilità di donne talentuose e appassionate. Di questo parleremo, in un discorso corale fatto di
musica, canti e letture nelle lingue di provenienza delle ospiti che parteciperanno al dibattito e in
traduzione italiana.
Tra le ospiti d’eccellenza, ci saranno Serena Abrami, cantautrice marchigiana, ricercatrice e voce della
band Leda, che negli anni ha avuto modo di collaborare con artisti di calibro dalla scena musicale come
Niccolò Fabi e Ivano Fossati; Meri Bracalente, attrice e autrice, co-direttrice di Teatro Rebis,
raffinatissima interprete di spettacoli quali Nella Moltitudine poesie di Wislawa Szymborska, Io non so
cominciare_requiem per Danilo Dolci, Signorina Else, Scarabocchi e Il Papà di Dio; ed Enrica Fei, arabista,
traduttrice e ricercatrice in Relazione Internazionali su Iraq, Iran e identità sciita presso l’Università di
Berlino.