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Infolampo: Sanità – Farmaci

ATT. PEREGO E CATTANEO – OSPEDALE NIGUARDA REPARTO DI CARDIOCHIRURGIA MEDICI PAZIENTI INFERMIERI
RIANIMAZIONE SANITA’ – Fotografo: FOTOGRAMMA DEL PUPPO

Non sempre sul versante della salute pubblica le agevolazioni fiscali sono prive di conseguenze dannose.
La verità è che, da un lato, possono creare una doppia disuguaglianza nei diritti e, dall’altro, permettono
di avvantaggiare i lavoratori più ricchi
di Elena Granaglia, Rps
Il testo che segue è la sintesi dell’articolo pubblicato nella sezione Tema del n.2-2017 della Rivista delle
Politiche Sociali. Gli abbonati possono leggerlo qui in versione integrale. Questo è invece il link alla
rubrica che Rassegna dedica alla stessa Rivista
Nell’arena pubblica, le agevolazioni fiscali al welfare
aziendale sono spesso considerate una win win solution: alcuni
ne beneficiano e nessuno è danneggiato. Opporvisi sarebbe
espressione d’invidia o di un piatto ugualitarismo da parte di
una sinistra passatista, cieca al ruolo del privato e delle
differenze. Ma non è sempre così. Sul versante della sanità
complementare, le agevolazioni al welfare aziendale possono
invece comportare due insiemi di costi non indifferenti.
Primo, possono creare una “doppia” disuguaglianza nei diritti,
permettendo ad alcuni non solo di accedere a più tutele
rispetto a quelle disponibili ad altri – nel caso della sanità
complementare più prestazioni sanitarie –, ma anche di
scaricarne parte del costo su chi non può accedervi. Come
esplicitamente rilevato dal termine inglese di tax expenditure,
le agevolazioni sono, infatti, una spesa fiscale, comportando
una riduzione del gettito.
La forma della deduzione (utilizzata in Italia) permette inoltre di avvantaggiare maggiormente i lavoratori
più ricchi, il valore della deduzione aumentando all’aumentare dell’aliquota marginale. Aggiungo come la
sanità complementare inietti, in un campo che ne era stato sostanzialmente immune, i germi di una
malattia che da sempre affligge il nostro sistema di welfare: il particolarismo categoriale.
Secondo, possono peggiorare lo stato del servizio pubblico. Diverse sono le vie. Vi è la via finanziaria. In
particolare in periodi di vincoli stringenti di finanza pubblica, dirottare risorse alla sanità complementare
può implicare meno risorse per il Ssn. Vi è la via dell’indebolimento della voce a difesa della qualità delle
prestazioni pubbliche. Chi beneficia della sanità complementare ha un’agevole opzione qualora
insoddisfatto delle prestazioni pubbliche: l’uscita. In tal caso, le prestazioni offerte dal privato
dovrebbero, ovviamente, essere sostitutive e, sulla carta, le prestazioni sanitarie oggi agevolate in Italia
dovrebbero essere integrative. Nella realtà, però, molte prestazioni offerte sono sostitutive.
Ancora, lo sviluppo della sanità privata potrebbe comportare una progressiva riduzione/marginalizzazione
Leggi tutto: http://www.rassegna.it/articoli/sanita-complementare-e-welfare-aziendale-linsidia-dei-costi
Allarme degli psicologi: la
“selfite” è una malattia

Leggi su www.strisciarossa.it

http://espresso.repubblica.it
“Metà dei farmaci in commercio oggi sono del tutto
inutili”
Esami prescritti senza senso, cure usate senza alcuna evidenza scientifica, integratori visti come panacea
di tutti i mali. La dura denuncia di Silvio Garattini, fondatore dell’Istututo Mario Negri
di Cristina Serra
21 dicembre 2017
Professor Garattini, quali sono a suo parere le cause principali dell’ipermedicalizzazione?
«Ci sono importanti interessi economici, ma concorre al fenomeno anche una pesante asimmetria
dell’informazione. Chi vende fa pressione sui gradini inferiori della piramide, e chi acquista non è
abbastanza informato. Questo vale sia per il Ssn che, ancor di più, per il cittadino. Cercando notizie in
rete, su siti generici, non si trovano informazioni veramente utili per decidere obiettivamente.
Informazioni che andrebbero date fin dai primi anni di scuola».
Quali fattori favoriscono il ricorso eccessivo ai farmaci: la presenza di molecole “me too” (nuovi farmaci
simili ad altri già presenti), il marketing delle case farmaceutiche o i medici che prescrivono on demand?
«Tutti questi elementi contribuiscono a determinare la situazione. Anche se credo che alla base di tutto ci
sia il fatto che la società si è dimenticata che la scienza è, in realtà, parte integrante della cultura, intesa
non solo come sapere, ma anche come capacità critica. In Italia, sembra che il concetto di cultura si
applichi solo alle lettere, alla filosofia o al diritto. La scuola non vede la scienza come elemento culturale
forte, non insegna principi scientifici che permettano di stabilire con relativa certezza se un farmaco serve
o no, se esiste un rapporto di causa-effetto o quali sono i rischi e i benefici. Per questo la gente è meno
capace che altrove di individuare principi guida cui ispirarsi per valutare le situazioni».
La medicina è ormai un prodotto di consumo e siamo bombardati da notizie sull’ultima miracolosa cura di
turno. Così negli ultimi anni anche le persone sane sono state trasformate in potenziali malati per
vendergli qualche pillola
Perché non accettiamo più di vivere con il rischio di ammalarci?
«Siamo vittime della pubblicità e siamo convinti di poter vivere in eterno, evitando qualsiasi rischio di
malattia, perché la pubblicità promette cose non vere. A forza di sentire che un certo farmaco serve, ci
crediamo davvero. Ma così diventiamo tutti pazienti a rischio».
Dove si prescrive in eccesso: con i tumori, con le malattie mentali, o con disturbi minori, quelli con cui,
in definitiva, si può continuare a vivere decentemente?
«La medicalizzazione più spinta è nella diagnostica, perché oggi si prescrivono moltissimi esami
ematochimici e funzionali inutili. Non a caso si parla di medicina difensiva, perché il medico dimostra
così di aver fatto tutto ciò che era in suo potere per inquadrare quel paziente. L’Italia è tra i paesi in cui si
eseguono più Tac e risonanze magnetiche. E lo stesso succede con i test genetici, dove la scoperta
continua di nuovi marcatori nel Dna porta a esagerare la prescrizione di test. Test del tutto inutili, perché
nella maggior parte dei casi trovare un “difetto” genetico non impone di passare alla terapia, dato che non
tutte le mutazioni nel genoma portano a patologia. Ma anche perché spesso una cura proprio non esiste».
Può fare qualche esempio di trattamento terapeutico inutile?
«Ce ne sono molti. L’assunzione di farmaci usati per malattie croniche (come le statine o gli
antipertensivi) da parte di pazienti terminali cui questi farmaci non portano beneficio; l’ozono per
l’artrite, gli ultrasuoni per i disturbi muscolari, le camere iperbariche usate per disturbi per i quali non ci
sono evidenze di miglioramenti. Rientra in questo elenco anche l’abuso degli integratori alimentari, privi
di prove di efficacia. Nessuno dice che non fanno nulla, che basterebbe cambiare stile di vita per stare
meglio».
Nella medicina moderna sembra sparito lo sguardo d’insieme e ormai chi sta male viene spedito da mille
diversi esperti per capire cosa ha. E forse anche per questo si moltiplicano i santoni e le cure fai-da-te
Molti farmaci, soprattutto antidepressivi, sono prescritti spesso in combinazione, nonostante prove della
loro inefficacia combinata. Perché l’Ema non interviene?
«L’Ema non interviene perché l’attuale legislazione, facendo il gioco delle case farmaceutiche, chiede che
un farmaco possieda caratteristiche di qualità, efficacia e sicurezza. Invece, andrebbe considerato anche il
valore terapeutico aggiunto, cioè come quel farmaco si posiziona nel mercato in termini di “valore

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oggi-sono-del-tutto-inutili-1.315144?ref=HEF_RULLO