Infolampo: leva – comunicazione
Leva obbligatoria, un’idea sbagliata
Dopo le parole del ministro Pinotti, che ne ha auspicato la reintroduzione, interviene il Silp. Tissone:
“Sarebbe un ulteriore passo verso la militarizzazione della sicurezza. Così sistema sempre più al servizio
del potere, a scapito dei diritti”
“In questo Paese, non da ora, c’è un pericoloso tentativo di (ri)militarizzazione della sicurezza, più o meno
strisciante, che punta a rendere meno efficiente proprio il sistema sicurezza, a renderlo sempre più
servente alle logiche di potere in quanto si prediligono uomini
e donne che battono i tacchi rispetto alle teste pensanti”. Così
Daniele Tissone, segretario generale del Silp Cgil. Proprio ieri
il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, ha rilanciato la leva
obbligatoria parlando alla festa degli alpini. Secondo la titolare
del dicastero, infatti, “proporre a tutti i giovani e alle giovani
di questo paese un momento unificante con un servizio civile,
che divenga allargato a tutti ed in cui i giovani possono
scegliere dove meglio esercitarlo, è un filone di ragionamento
che dobbiamo cominciare ad avere”.
Una posizione che non piace al sindacato. La proposta di
reintrodurre la leva, col plauso degli alti vertici militari che
scongiurerebbero così nuovi tagli alla difesa a vantaggio della
sicurezza civile, mantenendo lo status quo, “rappresenta un
ulteriore tassello di costruzione di un sistema della sicurezza che, dopo la militarizzazione forzata del
Corpo forestale dello Stato, si sta orientando verso un modello tipicamente in controtendenza con le
democrazie occidentali e europee”.
Per Tissone c’è “un pericoloso parallelo” tra quello che avvenne nel 2000, quando “un governo di
centrosinistra guidato dall’allora premier Massimo D’Alema concesse, per motivi ad oggi ancora
sconosciuti, il rango di quarta forza armata all’arma dei Carabinieri, creando una situazione unica al
mondo e soprattutto ingenerando nell’intero sistema sicurezza, difesa e soccorso pubblico italiano una
confusione e un disallineamento che ancora oggi ci portiamo dietro – e ciò che sta succedendo oggi, con
una riforma del sistema della sicurezza che ha avuto come unico risultato quello di cancellare e
militarizzare in maniera coatta il Corpo forestale dello Stato, riducendo diritti e sopprimendo i sindacati”.
La legge di riforma 121/1981 fu “una grande occasione di modernizzazione e democratizzazione delle
forze dell’ordine e della Polizia di Stato in particolare”, avvenuta grazie al soffio riformista del sindacato
confederale e della Cgil in particolare. “Oggi – aggiunge Tissone -, in un momento in cui il Paese chiede
maggiore sicurezza, parte della politica pensa di disegnare un modello di securitate dove i militari la
fanno da padrone, dove i diritti – a partire da quelli delle donne in divisa e senza dimenticare il mondo gay
– sono soppressi o compressi”.
La smilitarizzazione e della sindacalizzazione dell’arma dei Carabinieri è uno degli obiettivi storici del
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Migranti: Cgil aderisce a
‘Insieme senza muri’
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Quando la comunicazione è un problema
Se qualcosa va storto a un politico, a un imprenditore, a chiunque abbia bisogno di ottenere consenso e
gradimento, la scusa più semplice e disponibile sembra questa: “C’è stato un problema di
comunicazione”. Come dire “gente, io ce l’ho messa tutta, ma è accaduto qualcosa al di fuori del mio
controllo”.
di Annamaria Testa, esperta di comunicazione
È una scusa. Non funziona così.
Il problema di comunicazione dipende comunque dal contenuto dei messaggi, dalla forma in cui i
messaggi sono espressi, dalla relazione tra chi comunica e il suo pubblico e dal fatto che il pubblico
“giusto” (se vogliamo usare l’inglese, il target) sia effettivamente raggiunto dal messaggio trasmesso. Se
davvero c’è un problema riguardante la comunicazione, vuol dire che qualcosa non ha funzionato (e
dunque che c’è stato un errore) a uno o più di questi quattro livelli: contenuto, forma, relazione, pubblico.
Qualche volta, invece, la comunicazione non c’entra un fico secco. E il problema sta altrove, perché a non
funzionare sono le idee e le azioni conseguenti.
Per esempio, Donald Trump sostiene l’insostenibile quando, per giustificare il modesto consenso di cui
gode, assegna a se stesso una A (un ottimo voto) per i risultati ottenuti, addirittura una A+ (un voto
eccellente) per l’impegno e una C (un voto mediocre) per la comunicazione. E lo fa avendo peraltro vinto
le elezioni proprio grazie a una strategia di comunicazione inedita ed efficace (anche perché fondata
anche su una precisissima profilazione dell’elettorato).
Ma torniamo alla comunicazione, e ai possibili errori.
Prima di tutto, il contenuto: può essere inadeguato. E questo può voler dire: inaccettabile, inopportuno,
offensivo, incongruo, eccetera, ma può anche voler dire sfuocato, inutile, irrilevante o flebile al limite
dell’inesistenza.
Ci sono contenuti falsi e sbagliati che riescono a essere comunicati benissimo
Oggi, sempre più spesso, sembra che lo scopo della comunicazione sia il fatto stesso di comunicare,
presidiando la più vasta area possibile del dibattito e dell’immaginario collettivo. Ma senza uno straccio
di contenuto consistente la comunicazione evapora e non lascia traccia, o lascia solo un brutto alone
negativo.
Notate che, a proposito di contenuto, non ho parlato di giusto o sbagliato, e nemmeno di vero o di falso.
Ci sono, purtroppo, contenuti falsi e sbagliati che riescono a essere comunicati benissimo, per esempio
perché somigliano a quanto il pubblico vuole sentirsi dire.
L’unico modo per contrastarli è produrre contenuti veri e giusti che riescano a essere comunicati ancora
meglio. E trasmetterli presto e bene, senza stare troppo lì a piagnucolare. Sì, è difficile. E sì, non c’è altra
scelta.
Una regola che fa la differenza
In secondo luogo: la forma. Chi parla o scrive per un pubblico dovrebbe aver sempre presente il fatto che
renderà il suo discorso efficace per un numero maggiore o minore di persone anche usando certe parole, e
unendole in un certo modo, e non solo scegliendo certe argomentazioni e sostenendole in un certo modo.
“Efficace” significa diverse cose, e prima di tutto vuol dire vuol dire agevole da decodificare. Per farsi
ascoltare bisogna in primo luogo farsi capire: è la singola semplice regola che alcuni dei “grandi
comunicatori” dei tempi recenti hanno interiorizzato. E sì, è una regola che fa la differenza.
Sono di recente stata ad ascoltare Joseph Stiglitz. Parlava, in inglese, di temi economici complessi: lavoro
e disuguaglianze. Ma ritmo, tono, scelta dei termini, un pizzico di humor e un adeguato uso di immagini
hanno reso il discorso straordinariamente chiaro (e, di conseguenza, assai convincente).
In terzo luogo: la relazione. È proprio il modo in cui diciamo le cose a indicare in che modo consideriamo
i nostri interlocutori, e a decidere il tipo di relazione che, comunicando, stabiliamo con loro. Questa è la
parte più sfuggente, più sottovalutata e più importante del processo di comunicazione. Credo che un
singolo esempio basti a suggerire quanto questo aspetto sia importante. Riguarda l’arroganza, e sono certa
che qualche caso vi sia già venuto in mente.
Spesso, a chi comunicando appare “arrogante”, si consiglia di essere più “umile”. Ma umiltà e capacità di
comando (leadership) non vanno molto d’accordo. Tuttavia, chi comunicando appare arrogante sta
implicitamente dicendo ai suoi interlocutori “voi non valete niente”: non è un bel messaggio, e pregiudica
l’efficacia della comunicazione nel suo complesso.
Ma l’umiltà non è l’unica alternativa all’arroganza: si può essere assertivi, competenti, pacati, risoluti,
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