Spi CGIL, Pensionati tartassati – Valore sociale dei pezzi di carta
Pensionati tartassati, 70mld di euro all’anno allo Stato. Il
19/5 in piazza
Chi è in pensione paga 3mld in più di tasse rispetto ai lavoratori dipendenti.
Tra tasse e blocco della rivalutazione degli assegni i pensionati italiani versano nelle
casse dello Stato 70 miliardi di euro all’anno.
Lo ha calcolato lo Spi-Cgil, che il prossimo 19 maggio sarà in piazza del Popolo a Roma
insieme a Fnp-Cisl e Uilp-Uil con una manifestazione nazionale per chiedere al governo
attenzione e interventi urgenti per chi è in pensione.
Nel dettaglio ogni anno i pensionati versano circa 60 miliardi di euro al fisco, di cui 50
miliardi di Irpef nazionale e 10 miliardi tra addizionali regionali e comunali.
Cifre a cui si aggiungono altri 10 miliardi di euro che vengono recuperati dalle pensioni
superiori a tre volte il trattamento minimo (1.500 euro lordi) per l’effetto trascinamento del
blocco della rivalutazione 2012-2013.
Sono invece di 3 miliardi le risorse che i pensionati versano al fisco rispetto ai lavoratori,
che beneficiano di maggiori detrazioni fiscali e degli 80 euro.
Un pensionato con un assegno da 1.000 euro al mese paga infatti 1.207 euro in più
all’anno rispetto ad un lavoratore, 1.260 euro in più chi prende 1.200 euro e 1.092 euro in
più chi ne prende 1.600.
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Il valore sociale del pezzo di carta
Trovare un lavoro è una fortuna, va bene fare il barman con il diploma di liceo in tasca,
la cassiera con la laurea. L’ingiustizia di uccidere i sogni, il paradosso di un Paese che
non sa che farsene dei suoi giovani che hanno “studiato troppo”
di Silvia Garambois
Ci si potrebbe scrivere la storia d’Italia sul “pezzo di carta”: il tempo non così lontano in
cui la licenza media era un traguardo, poi il diploma (quello che portava via dai campi o
dalla fabbrica, a fare il ragioniere o il geometra in un bell’ufficio), poi – via via che gli
anni scorrevano – la laurea, il sogno che si avverava di un dottore in famiglia. L’istruzione
motore dell’“ascensore sociale”, che portava i figli un passo più in su: da noi non c’è stato
il mito del self-made-man perché tutto era sulle spalle, i sacrifici e l’orgoglio dei genitori.
E poi è arrivata questa era di bulimia di master, stage, corsi d’approfondimento che
dilatano i curriculum in attesa del lavoro.
L’ascensore sociale è fermo da un pezzo. Sette diplomati su dieci non vanno all’Università
(dati di Alma Laurea). Il pezzo di carta spesso è meglio nasconderlo (“Con questo
curriculum come faccio ad assumerla?”). E secondo le indagini commissionate dal
Sole24ore – cioè dati che interessano le aziende – ci sono 400mila “overeducated”: troppo
qualificati per il lavoro che fanno. E’ il sogno in frantumi.
Datagiovani, il centro di ricerche che ha svolto questa indagine, ha intervistato oltre un
milione e mezzo di giovani laureati e diplomati: un campione estremamente vasto rispetto
ai normali sondaggi. Il risultato è stato che il 28% dei laureati ha una formazione superiore
a quella necessaria per il lavoro che svolge; un dato che cresce al 43,6% per i laureati in
discipline umanistiche. Sono 100mila i diplomati e 300mila i laureati che hanno dovuto
rinunciare al futuro per il quale hanno speso tanti anni di studio.
Niente di nuovo? Si, certo, è nell’esperienza di tutti: trovare un lavoro è una fortuna, va
bene fare il barman con il diploma di liceo in tasca, la cassiera con la laurea inquadrata in
camera da letto. O tornare a dissodare la terra dei nonni, lasciando perdere Kant e
Schopenhauer. Del resto dal 2008 è raddoppiato il numero dei diplomati disoccupati (dal
17,9 al 36,4%) e quello dei laureati disoccupati (dal 9,4 al 17,2%): anche un lavoro
dequalificato rispetto al titolo di studio, allora, va bene. Un giorno, magari, chissà… Ma
non possiamo considerarlo normale. Non è normale. Non è neanche giusto.
Il paradosso di un Paese che non sa che farsene dei suoi giovani che hanno studiato. Anzi,
che hanno “studiato troppo”. E allora meglio dirlo in inglese, overeducated: fa un po’
meno impressione, nasconde la vergogna.
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