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Infolampo: libertà – quote

evidenza-quote-rosa-int2Riprendiamoci la libertà
Il 30 settembre tutte in piazza. Un appello contro la violenza di genere, la depenalizzazione dello stalking
e la narrativa nei casi di stupri e femminicidio. La mobilitazione, che sarà a livello nazionale, è stata
promossa da Susanna Camusso e dalla Cgil
di Alice Frei
“Riprendiamoci la libertà”. È questo il titolo dell’appello lanciato da Susanna Camusso e dalla Cgil alle
donne italiane, un invito a scendere in piazza sabato 30 settembre per manifestare contro la violenza sulle
donne, la depenalizzazione dello stalking e contro la
narrativa usata dai media per raccontare i casi di stupri e di
omicidio. L’iniziativa è stata già accolta positivamente da
un largo numero di donne del mondo dello spettacolo,
della politica, del giornalismo e della ricerca. In attesa che
nei prossimi giorni vengano rese note le modalità delle
mobilitazioni territoriali del 30 settembre, tra le prime
firme in calce all’appello ci sono quelle di Giusi Nicolini,
Geppi Cucciari, Loredana Lipperini, Angela Finocchiaro,
Luciana Castellina, Rossella Muroni, Norma Rangeri,
Chiara Saraceno, Elisabetta Addis, Manuela Kusterman.
Donne e violenza, è allarme per i fatti e per le parole. È da
qui che parte la proposta una mobilitazione nazionale per
il prossimo sabato 30 settembre. Il titolo scelto per l’appello è significativo: “Avete tolto senso alle
parole”. L’obiettivo dell’iniziativa è chiaro: chiedere agli uomini, alla politica, ai media, alla magistratura,
alle forze dell’ordine e al mondo della scuola un cambio di rotta nei comportamenti, nel linguaggio, nella
cultura e nell’assunzione delle responsabilità.
Per ognuno è presentata una richiesta specifica. Dice tra l’altro il testo dell’appello :
La convenzione di Istanbul è citata ma non applicata. Occorre farlo.
Così come la depenalizzazione dello stalking va cancellata subito.
La cultura del rispetto si costruisce a partire dalla scuola, dal senso delle parole, e si chiama educazione.
Agli operatori della comunicazione tutti, viene rivolto l’invito ad interrogarsi sul senso dell’informazione,
sul peso delle parole. Da qui la denuncia e la condanna di chi si bea della cronaca morbosa.
Nell’appello non manca un rinnovato richiama alla necessità di progetti, risorse e mezzi da destinare ai
centri antiviolenza, per case sicure e norme certe per l’inserimento al lavoro.
Tra le urgenze viene indicato come indispensabile la diffusione e il potenziamento del servizio di
pubblica utilità telefonico contro la violenza sessuale e di genere.
Viene infine rivolta alla magistratura e alle forze dell’ordine, la sollecitazione affinché venga prima la
parola della donna in pericolo, della donna abusata, che non si sottovaluti, che non si rinvii, che si dia
certezza e rapidità nelle risposte e nella protezione.
Leggi tutto: http://www.radioarticolo1.it/articoli/2017/09/25/8135/riprendiamoci-la-liberta
Lo Spi Cgil di Parma parte civile
nel processo per il caso Villa Alba

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Quote in azienda, una legge riuscita
La legge 120/2011, che ha imposto le quote di genere nei consigli di amministrazione delle società
quotate e partecipate, è stata una delle più discusse della scorsa legislatura.
di Elsa Pili
In molti hanno sollevato dubbi sulla sua utilità, in molte sulla sua opportunità. Diverse associazioni di
donne l’hanno apertamente osteggiata, considerandola uno strumento che sanciva l’inferiorità delle donne
rispetto agli uomini, la loro incapacità di farcela da sole. Un argomento che sarebbe stato valido se le
condizioni di partenza fossero state eque, se le donne fossero state nelle medesime condizioni degli
uomini di accedere al mercato del lavoro, costruire la propria carriera, aspirare a posizioni di vertice sulla
base del proprio impegno e del proprio talento.
5,9: è il numero che smonta, da solo, questo argomento. 5,9 è la percentuale di donne che sedevano nei
consigli di amministrazione nel 2008. Un numero decisamente troppo basso per poter non vedervi un
problema sistemico, soprattutto se comparato con altri dati, quelli delle donne laureate, ad esempio. È un
numero che racconta la storia di una serie di problemi, che certamente non possono essere circoscritti
all’interno delle politiche aziendali: sono molto più capillari e diffusi, nascono e si nutrono di un’infinità
di discriminazioni, implicite ed esplicite, che iniziano quando si è molto piccoli, spesso proseguono in
famiglia, si consolidano nella propria vita sociale e nell’ambiente mediatico a cui siamo esposti, nelle
agenzie di socializzazione primarie come la scuola, e producono conseguenze sulle nostre scelte più
importanti, come il corso di studi da scegliere all’università o l’investimento da fare o non fare sul nostro
sviluppo professionale.
Un numero così piccolo, insomma, da raccontare molto. La legge, nel solco dell’esempio di altre
affirmative action, ha imposto una discriminazione positiva, per accelerare un cambiamento che, secondo
alcuni studi, sarebbe avvenuto spontaneamente tra circa un centinaio d’anni e che, forse, non sarebbe
avvenuto mai[1].
Analizzando i dati delle società quotate in borsa, il successo della legge è evidente: le aziende al primo
rinnovo hanno avuto il 27,8% di donne (l’obbligo di legge era il 20), mentre le aziende che sono già al
secondo rinnovo contano il 36,9% di donne (anche in questo caso, più dell’obbligo di legge, il 33,3%).
Nelle 8 aziende che hanno già svolto il terzo rinnovo, il dato è sempre positivo: 35,4 %.
Non solo: le donne sono mediamente più giovani (50,9 anni a fronte dei 58,9 degli uomini) e più istruite
(l’88,5% di loro ha una laurea, a fronte dell’84,5% dei colleghi, e ben il 29,7% di loro ha anche un titolo
post laurea, negli uomini la percentuale si ferma al 16,7%).
Per quanto riguarda la provenienza, vi sono alcuni dati positivi e altri negativi. Tra i primi, il fatto che le
donne abbiano, rispetto agli uomini, meno frequentemente legami familiari con l’azionista di controllo
della società (nel 13,17%, 16,9 per cento per i colleghi). Non è, invece, un dato positivo il fatto che solo il
54% delle donne siano manager, mentre lo è il 76,5% degli uomini. Questo, infatti, ha chiaramente un
peso nella distribuzione dei ruoli esecutivi, rispetto ai quali il gap resta ancora tutto da colmare.
L’esistenza stessa di questi dati, infine, ci permette di passare dall’analisi del merito all’analisi del metodo
della legge Golfo-Mosca, che rappresenta un’eccellenza nel panorama legislativo italiano.
In primo luogo, perché l’approvazione della legge non è stata la fine del viaggio ma il suo inizio: in questi
cinque anni trascorsi dalla sua entrata in vigore (avvenuta ad agosto 2012), i suoi effetti sono stati
costantemente monitorati grazie al progetto europeo Women mean business and economic growth,
coordinato dal Dipartimento Pari Opportunità e dal Dondena Centre, guidato da Paola Profeta, che spesso
ne ha raccontato il lavoro e i dati raccolti proprio qui su InGenere. Il monitoraggio e la valutazione sono
due fasi essenziali del ciclo delle politiche pubbliche ma, purtroppo, ben lontane dall’essere prassi nella
legislazione del nostro paese.
In secondo luogo, perché la legge ha una data di scadenza, che coincide con i tre mandati: dal quarto
rinnovo del proprio consiglio di amministrazione, una società quotata non sarà più obbligata per legge a
rispettare un’equa rappresentanza di entrambi i generi ma l’auspicio è che continuerà a farlo perché in
questi anni si è innescato un cambiamento culturale dal quale dovrebbe essere difficile tornare indietro.
Siamo ben lontani, insomma, dalla costituzione di una riserva indiana permanente.
Infine, elemento non meno importante, perché questa legge è nata, è stata approvata ed è vissuta in un
costante e fertile dialogo con la società. La partecipazione delle tantissime associazioni, delle singole
donne in posizioni di rilievo, di parti del mondo accademico e di quello mediatico è stata, infatti,

essenziale sia nella fase di stesura della proposta di legge sia nella sua approvazione. La legge Golfo-
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