Infolampo: povertà – occupazione
La trappola della povertà da cui l’Italia non riesce a
uscire
A Roma sono spuntati i poveri con la scopa e la paletta. Arrivano a un angolo di marciapiede, sistemano
il loro zainetto vicino a un portone o a un albero e mettono in vista un piccolo bicchiere di carta per
l’elemosina e un grande cartello scritto in stampatello che spiega: mi voglio integrare, mi rendo utile,
pulisco la vostra strada. E infatti puliscono, fanno mucchietti di foglie secche, cicche e spazzatura, e poi,
molto lentamente, li tolgono di mezzo. Sono comparsi tutti insieme e i loro cartelli sono tutti uguali, con
un messaggio che non vuole impietosire ma convincere: io mi dò da fare.
di Roberta Carlini
Senza saperlo, stanno seguendo il mantra europeo sulle politiche contro la povertà, la linea scelta da
alcuni paesi negli anni ottanta e poi diventata ufficiale a
livello comunitario, che si chiama “attivazione”: chiede a
chi riceve risorse pubbliche di lavorare o fare formazione,
oppure mostrare di volerlo fare, prove alla mano. Un
principio che ha ispirato anche le social card e le altre forme
sperimentali di aiuto ai più poveri che abbiamo avuto negli
ultimi anni in Italia, e che connota già dal nome il reddito di
inclusione attiva (Rei), finalmente introdotto dopo anni di
attesa, al varo nel 2017.
L’Italia, pur essendo in testa in Europa sia per il rischio
povertà sia per l’incremento che ha avuto
negli anni della crisi, era rimasta l’unico paese dell’Unione a
non avere una misura universale nazionale per contrastarla:
adesso ce l’ha, anche se con pochi fondi.
Parliamo di un miliardo di euro per il 2017 e il 2018, ai
quali vanno aggiunti i fondi inutilizzati degli anni
precedenti, più un altro miliardo in sette anni per potenziare la rete de servizi. Poca cosa. Come ha
ricordato l’ufficio parlamentare di bilancio, servirebbero dai 5 ai 7 miliardi all’anno per raggiungere tutte
le famiglie sotto la soglia di povertà assoluta.
In ogni caso, non andranno ai poveri con la paletta, che sono quasi tutti immigrati appena arrivati; e
potranno coprire solo una parte delle persone sotto la soglia della povertà assoluta. Lo riceveranno, se
tutto va bene dal prossimo anno, 400mila famiglie, ancora una volta in forma di carta acquisti che arriverà
a 485 euro al mese per le famiglie con cinque componenti o più.
Ma come arriva quest’aiuto, cosa ne fanno le famiglie una volta che lo ricevono, cos’è, di fatto, la mitica
“attivazione” dei poveri? Capire come e se funzionerà è importante perché l’idea che lo ispira è anche una
delle idee alla base del “reddito di cittadinanza” proposto da alcune forze politiche italiane, e per farlo è
Leggi tutto: https://www.internazionale.it/reportage/roberta-carlini/2017/07/10/poverta-reddito-inclusione
Cgil, Landini entra in segreteria
Leggi su www.rassegna.it
www.ingenere.it
Se occupazione e natalità crescono insieme
Del rapporto annuale appena diffuso dall’Inps, si è parlato molto negli ultimi giorni per il buco di circa
37 miliardi che chiudere le frontiere ai migranti comporterebbe. Gli stranieri regolarmente occupati
sono una voce importante delle entrate erariali, e questo si sapeva, ma la cifra fa riflettere.
di Francesca Bettio, Claudia Bruno
Una novità, invece, il rapporto la contiene, e riguarda le donne.
Il volume dedica infatti per la prima volta un intero capitolo al nesso tra occupazione femminile e natalità,
finalmente centrando due punti chiave che riguardano la situazione in Italia e che su inGenere andiamo
ribadendo da tempo. Il primo è la cosiddetta correlazione inversa tra occupazione e natalità di cui alcune
di noi hanno iniziato a parlare ormai più di vent’anni fa, per prime in Europa e non solo, e cioè che nei
paesi in cui il tasso di occupazione è più elevato c’è anche una natalità più alta, e viceversa. L’Italia,
purtroppo sta nel viceversa, ma il messaggio è sempre quello, occorre intervenire su ciò che aiuta
riconciliare vita e lavoro. Il secondo punto è che non si deve guardare al gap salariale fra uomini e donne
– quello di cui invece si parla più spesso – bensì al gap di reddito, quello che per l’Italia è al 38 per cento
e che è molto simile al gap pensionistico. In Italia, cioè, la vera disparità con gli uomini è quanto la donna
“porta a casa” in media con il suo lavoro, e non quanto guadagna per ora lavorata. È una tesi che inGenere
va difendendo da qualche anno.
Dunque, sì, non neghiamo la soddisfazione che proviamo nel constatare che, magari tardi, magari per
canali indiretti, i problemi a cui alcune di noi hanno dedicato una vita di ricerca sono emersi come nodi
centrali nel dibattito.
I dubbi rispetto al rapporto sono invece tutti sul modo in cui si leggono gli effetti di due misure di
conciliazione – il cosiddetto “bonus infanzia” e il “bonus padri” – entrate in vigore negli ultimi anni per
incoraggiare natalità, occupazione femminile e condivisione dei carichi di cura.
Partiamo dal bonus infanzia. Questa misura, introdotta dalla legge di stabilità del 2014 e rivolta alle
nuove mamme e agli asili, prevede una somma che può arrivare fino a 600 euro mensili per sei mesi
spendibili in voucher per le baby sitter o per coprire le rette dell’asilo, a seconda di chi ne fa richiesta. Le
richieste di accesso al bonus sono state abbastanza numerose da esaurire la somma messa a disposizione
dal governo, e questa è già una buona notizia.
Quello che si vede dal rapporto è che la domanda individuale ha prevalso sulle domande da parte degli
asili e a richiedere il bonus sono state soprattutto le donne residenti al Sud che ci hanno pagato in voucher
le baby-sitter. Un dato interessante, questo, che sembra dirci che la misura ha centrato l’obiettivo,
considerando che al Sud l’occupazione delle donne è molto più bassa e che ci sono molti meno asili.
Cerchiamo di capire quali sono stati gli effetti sull’occupazione e sul reddito delle madri occupate. Dal
rapporto si evince che il bonus ha frenato l’uscita delle nuovi madri dall’occupazione. A partire dalla fine
dei sei mesi di maternità obbligatoria, per chi non ha usufruito del bonus il tasso di abbandono
dell’occupazione cresce in maniera sostanziosa e continua a crescere fino a superare il 20-25% a dodici
mesi, mentre per quelle che hanno usufruito del bonus il tasso cresce ma si tiene sotto il 10% anche oltre i
12 mesi (figura 2). L’effetto frenante sul tasso d’uscita dal mercato del lavoro sembrerebbe dunque assai
significativo.
Se però guardiamo ai beneficiari del bonus, vediamo che a usufruirne sono state soprattutto le donne
scolarizzate, impiegate (quindi con occupazioni più stabili), e con redditi più alti. Le stesse che
probabilmente l’intenzione di lasciare il lavoro non l’avevano comunque, bonus o non bonus. L’effetto
sarebbe allora molto meno di quello che appare, trattandosi di una “selezione favorevole”. Se il
provvedimento fosse stato pienamente efficace avrebbe dovuto mirare a tenere nel mercato le occupate
più povere, e che invece dopo la maternità ne sono uscite.
Stiamo comunque parlando di una misura che è poco più di un esperimento. Il rapporto non fornisce il
numero dei beneficiari, ma a spanne, si tratta di una quota attorno al 5% delle nuove mamme ogni anno in
media nazionale.
Se dunque si rischia di sopravvalutare l’effetto del bonus infanzia sull’occupazione, diverso è il discorso
per il bonus padri, il cui impatto esce quasi sminuito dal rapporto. La misura, entrata in funzione nel
2013, prevede che i padri che prendono almeno tre mesi di congedo parentale (facoltativo) abbiano diritto
al bonus di un mese in più.
Certo, i padri che chiedono il congedo facoltativo sono sempre troppo pochi – circa diecimila nel 2015-
scolarizzati e prevalentemente occupati nel settore pubblico, ma in tre anni il loro numero è praticamente
Leggi tutto: http://www.ingenere.it/articoli/se-occupazione-e-natalita-crescono-insieme