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Da Infolampo: Voucher – parità

voucher1I voucher? Parlano al femminile

Le donne pagate con voucher rappresentano oltre la metà dei “percettori dei buoni lavoro”, con un’età

media di 35,1 anni. Contro l’ultima frontiera della precarietà non c’è modifica che possa attenuarne il

carattere negativo. Vanno aboliti e basta

di Lisa Bartoli

Quest’anno la festa dell’otto marzo cade proprio nel bel mezzo di una campagna referendaria che vede

impegnata la Cgil per restituire valore al lavoro e con esso la dignità a tutti gli uomini e le donne, che in

questi anni di crisi stanno pagato un prezzo altissimo in

termini di precarietà e di insicurezza. L’obiettivo di

Lisbona di portare nel nostro paese il tasso di occupazione

femminile al 60%, che prima del 2008 sembrava un

traguardo quasi raggiungibile, oggi appare addirittura un

miraggio. L’Istat ce lo ricorda nel rapporto 2016: siamo al

48,1% delle occupate. Cresce il part time involontario, ma

non quello scelto dalle lavoratrici per conciliare tempi di

vita e di lavoro, con la conseguenza che si riflette su un

tasso di natalità ancora negativo. “Le disuguaglianze di

genere, anche salariali – spiega Morena Piccinini,

presidente Inca – sono negli occhi delle tante donne,

giovani e non, che si rivolgono ai nostri sportelli per un

aiuto, per vedersi riconoscere le prestazioni di welfare che

spesso sono subordinate a criteri talmente restrittivi da

impedirne realmente l’accesso, con il risultato che le risorse stanziate restano inutilizzate”.

Parlano al femminile anche i voucher, l’ultima frontiera della precarietà, contro cui non c’è modifica che

possa attenuarne il carattere negativo. Vanno aboliti e basta, da mesi ripetono le migliaia di persone che

partecipano alle assemblee promosse dalla Cgil, per chiedere l’abrogazione legislativa di questo

strumento. Nel dossier Inca, presentato a Roma il 28 febbraio, snocciolando alcuni dati diffusi dall’Inps,

viene riprodotta una fotografia sconfortante.

Solo nel 2015, tra i lavoratori attivi (750.000), cioè coloro che hanno una posizione assicurativa già

aperta, alimentata anche da prestazioni di sostegno al reddito per disoccupazione, le donne pagate

esclusivamente con voucher rappresentano oltre la metà, con un’età media di 35,1 anni di età.

Analogamente avviene tra quelli che l’Inps definisce “silenti”, vale a dire disoccupati di lunga durata.

Trecentomila in tutto, con una storia lavorativa alle spalle, che però nel 2015, hanno percepito unicamente

ticket. Nel 2010, le donne erano il 54%, mentre nel 2015 la percentuale è balzata al 57%, con un’età

media di 36,6 anni. Il 40% del totale non lavorava da un anno, il 20% da due e il restante 40% da oltre 5

anni.

In un crescendo rossiniano di precarietà diffusa dai cosiddetti “buoni lavoro”, l’identikit di Inps sui

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Marche, una regione a voucher

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Leggi e istituti di parità producono parità?

Doppia preferenza, quote di lista, parità numerica nella composizione degli organi di governo.

Verifichiamo l’impatto di genere che queste norme hanno prodotto, iniziando dal Veneto

di Alisa Del Re

La legge 215 del 2012[1] per l’elezione dei consigli comunali introduce, come sistema di riequilibrio di

genere negli organi elettivi di comuni e province, la doppia preferenza e le quote di lista. Questa legge

incide anche sugli statuti degli enti locali con una forza precettiva. Essa infatti modifica l’art.6 comma 3

del Testo Unico degli Enti Locali (TUEL), stabilendo che gli statuti debbano “garantire la presenza di

entrambi i sessi negli organi collegiali non elettivi delle amministrazioni locali”, vincolando il sindaco

nella nomina dell’esecutivo. Gli effetti innovativi prodotti dalla legge sono ovviamente maggiormente

incisivi sia sul fronte della rappresentanza politica che degli organi di governo. Quindi la successiva legge

n.56 del 7 aprile 2014 stabilendo che – all’interno delle giunte dei comuni con più di 3.000 abitanti –

“nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40 per cento” attiva una parità

numerica di genere, in conformità al principio definito dall’art.51 della Costituzione, diventando il

parametro di legittimità della composizione degli organi di governo.

Verifichiamo l’impatto di genere che queste leggi hanno prodotto nel Veneto[2] analizzando le elezioni

del 2016. I comuni chiamati al voto sono 82, cioè il 14,2% di tutti i municipi della Regione (in tutto

576)[3]. Per quanto riguarda i consigli comunali la percentuale dei consiglieri eletti nella maggioranza

politica è passata dal 79,1% al 65,2% con un calo del 13,9%, mentre la percentuale delle elette passa dal

20,9% della penultima elezione al 34,8% del 2016 con incremento del 13,9%. Per quanto riguarda

l’opposizione, la percentuale della componente maschile nella elezione del 2016 rispetto a quella

immediatamente precedente scende dal 81,6% al 66,3% con un saldo negativo del 15,3%. L’incremento

delle elette passa dal 18,4% al 33,7%.

Per le giunte, non sono mancati tentativi di eludere il principio dell’equilibrio tra i sessi: infatti il numero

delle assessore è inferiore al 40% negli esecutivi di Villorba (Tv), di Caorle (Ve), di Garda (Vr) e di

Montegalda (Vi). Per entrare invece nel vivo dell’esame delle competenze politiche riscritte negli

esecutivi formati nel 2016, i referati attribuiti diminuiscono quantitativamente per gli uomini e aumentano

per le donne. L’incremento segna valori alti: +6% nella provincia di Vicenza, +9% nella provincia di

Rovigo, +16% nella provincia di Treviso, sino ai maggiori valori di +27% nella provincia di Padova,

+28% in quella di Venezia, per giungere al massimo incremento del 39% in quella di Verona.

Le materie delegate agli uomini registrano parallelamente un calo di 18 punti percentuali a Padova, di 15

a Verona, di 12 a Venezia, di 4 a Rovigo, di appena 1 punto a Treviso, mentre i dati di Vicenza registrano

un aumento in controtendenza di 1 unità percentuale. Nonostante questo incremento, non esiste una sola

competenza che veda prevalere le donne. La classe relativa alle deleghe nel settore sociale, che è la più

importante con 47 deleghe conferite alle donne, si confronta con le 61 deleghe conferite ai maschi. Il

settore riguardante la “cultura, sport, turismo e tempo libero” registra addirittura il doppio delle deleghe

nella competenza maschile. Le risorse strategiche, settore chiave per le scelte delle amministrazioni che

comprende materie come il bilancio e i tributi, resta a forte predominio maschile, con quasi il quadruplo

delle deleghe assegnate agli uomini, mentre la percentuale di differenza è di ben oltre cinque volte e

mezzo nel settore riguardante l’ambiente e territorio e di quasi cinque volte nel settore del commercio e

delle attività produttive.

Solo un’assessora ogni 10 colleghi uomini si occupa di urbanistica ed edilizia privata, ed una ogni 22 è

titolare di referati attinenti i lavori pubblici. Notevole ancora la sproporzione nell’altro settore

“strategico” della viabilità e trasporti (3 assessore contro 17).

Dove allora individuare maggiori spazi di novità nelle attribuzioni alle donne? Interessante può essere

l’incremento delle deleghe nel settore “ambiente e territorio”, comprendente materie di “peso” anche

finanziario nel disegno strategico dei comuni, come l’ecologia, il ciclo dei rifiuti e le risorse agricole dei

centri in cui è rilevante l’economia rurale. Significativo è anche l’incremento del numero delle assessore

con delega nel settore economico, classificato come “Lavoro, artigianato, commercio e attività

produttive”. Infine l’aumento delle attribuzioni alle donne di ambiti quali il “Decentramento ed

organizzazione” (dal 10,3 del 2011 al 34,8% del 2016) rischia di assumere il carattere di un conferimento

meramente formale se non coniugato effettivamente a un disegno strategico di ampio respiro, quale

potrebbe ad esempio essere la politica costitutiva di un’unione dei comuni o di analoghe forme di

gestione dei servizi di area vasta. Il lieve innalzamento della quota delle deleghe per i lavori pubblici (dal

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