Da Infolampo: Precariato – Voucher
Il precariato accorcia la vita
Il lavoro sottopagato, senza sicurezze, tutele e diritti nuoce anche alla salute. E si coniuga con un altro
elemento che fa malissimo, la povertà: quella che porta a malnutrizione, quella per cui si risparmia
persino sulle cure mediche
di Silvia Garambois
Il precariato fa male alla salute: è entrato d’imperio come “fattore di rischio” tra gli elementi che
accorciano la vita, insieme a fumo, alcolici, obesità, essere
sedentari, ipertensione e diabete. I ricercatori non lo
chiamano stage o contratto a termine o contratto a progetto
ma “stress psico-sociale” e, nelle loro tabelle matematiche,
considerano che possa accorciare l’aspettativa di vita di un
paio d’anni e forse più. Il doppio dei danni dell’alcol.
Una ricerca seria, durata 13 anni su oltre un milione e mezzo
di persone (in Gran Bretagna, Italia, Portogallo, Stati Uniti,
Australia, Svizzera e Francia), nata dalla perspicacia e
ostinazione di un professore londinese, sir Michael Marmot,
che ha scritto un libro dal titolo chiarissimo: “Salute
diseguale”, dove denuncia come lo svantaggio socio-
economico accorci la vita.
I dati della ricerca sono stati diffusi negli stessi giorni in cui
faceva notizia anche il “boom anomalo” degli stage nel
nostro paese: nel 2012 erano 63mila, a metà febbraio di
quest’anno 143mila, il 116% in più. Ma non è solo l’aumento
esponenziale di questo tipo di “contratto” (per cui si fa la
stagista anche alla cassa di un supermercato), a far riflettere –
all’interno di questo dato – è soprattutto il fatto che la
maggioranza degli stagisti ha tra i 25 e i 34 anni (il 44%) e
quasi il 15% ha oltre i 45 anni. Ma gli stage non dovevano
servire ai ragazzini per l’inserimento al lavoro?
L’intreccio di queste analisi racconta quella fetta d’Italia – sempre più grande -abbandonata a un destino
precario, tanto nell’immediato del lavoro a singhiozzo e sottopagato quanto nel domani di una pensione
insufficiente.
Che il precariato faccia male alla salute a questo punto non è solo un dato di ricerca, perché si coniuga
con un altro elemento che fa malissimo, la povertà: quella che porta a malnutrizione, quella per cui si
risparmia persino sulle cure mediche. Che nega quella vecchiaia serena che oggi è così cara alla
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Voucher e non solo. Dalla flessibilità all’iperprecarietà
Non era l’Italia, secondo una retorica internazionale, il Paese che aveva le maggiori rigidità nel mercato
del lavoro? Anche se in molti hanno fatto finta di non accorgersene, la decostruzione delle tutele per gli
occupati viene da lontano
di Patrizio Di Nicola
Come si è arrivati alla situazione odierna, in cui una persona che lavora per una grande azienda può esser
retribuita, senza contratto scritto, con un foglietto di carta del valore di 7,5 euro l’ora? Non era l’Italia,
secondo una retorica internazionale (a volte supportata da dati e analisi errate), il Paese che aveva le
maggiori tutele per gli occupati? Anche se in molti hanno fatto finta di non accorgersene, la decostruzione
delle tutele sul lavoro viene da lontano e in qualche modo è stato un modo per sfuggire alle maglie dello
Statuto dei lavoratori del 1970, che fissava un moderno corpo di regole per il lavoro dipendente a tempo
indeterminato.
La prima tappa del percorso di flessibilizzazione del lavoro è rappresentata dalla legge n. 863 del 1984,
che istituiva il contratto di inserimento formativo per i giovani (e ciò anche se i giovani che entravano in
azienda erano spesso ben più formati dei lori padri) e dava la possibilità di stipulare contratti di solidarietà
finalizzati alla riduzione concordata dell’orario di lavoro (e del salario) in caso di crisi aziendale: una
discutibile applicazione della regola del “lavorare meno per lavorare tutti”.
Altro importante passo verso la flessibilità è la legge n. 223/91, che ridusse le restrizioni ai licenziamenti
collettivi dovuti a crisi o ristrutturazioni industriali. Norma rinforzata poi dal protocollo di intesa del
luglio 1993, che introduceva l’idea che la flessibilità potesse contribuire a stimolare l’occupazione, ma
che, come notava Gallino, trattava il lavoro, per vari aspetti, come fosse una merce qualsiasi. Venne poi,
nel 1995, la riforma Dini sulle pensioni, che introducendo un trattamento previdenziale minimo per i
lavoratori parasubordinati, sdoganò definitivamente la figura del collaboratore: un giovane, per lo più di
sesso femminile, che lavorava in media per sette mesi l’anno con una retribuzione di 700 euro lordi. Nel
2013 superarono il milione di unità, di cui oltre 100 mila nella pubblica amministrazione.
Ma quelli che sono unanimemente considerati i cardini del lavoro flessibile vengono sanciti nel 1997,
quando viene approvata la legge n. 196 – il cosiddetto “pacchetto Treu” – che introduce la novità del
lavoro interinale, allargando ulteriormente le possibilità di impiego a termine, e nel 2003 con l’attuazione
della legge 30. Una norma affetta da una sorta di bulimia delle tipologie contrattuali precarie, svariate
decine. Il lavoro accessorio, retribuito tramite voucher, nasce proprio in quella norma.
Durante gli ultimi 25 anni, come visto, governi, Parlamenti e addetti ai lavori a vario titolo si sono molto
impegnati allo scopo di superare le supposte (mai realmente provate) rigidità del mercato italiano.
Secondo un’interpretazione ampiamente condivisa nei talk show (ma meno accreditata tra chi svolge
ricerche socio-economiche), tutelando i lavoratori dai licenziamenti si ostacolava l’aumento
occupazionale, specialmente a scapito dei giovani. Argomentazione almeno paradossale: non si capisce
perché cacciando via un lavoratore aumentino le chance occupazionali di due disoccupati. Ma, dato che le
idee strane sono spesso quelle più praticate, è successo che ben due esecutivi (Monti prima, Renzi poi) si
siano accaniti contro l’unica legge che tutelava i lavoratori dai licenziamenti senza giusta causa.
Purtroppo, come dimostrano gli eventi, tutto l’impegno profuso non sembra aver colpito nel segno: la
disoccupazione giovanile, che ai tempi del “pacchetto Treu” era vicina al 30%, oggi oscilla attorno al
40% e anche il tasso di attività si è ridotto. Si potrebbe obiettare che in Italia ancora paghiamo il prezzo
occupazionale della Great Recession iniziata nel 2007-2008. Ma un mercato del lavoro flessibile non
avrebbe dovuto in qualche modo aiutarci proprio in questa evenienza?
Il problema è che la flessibilità, lungi dal costituire un’occasione occupazionale concreta per le persone
espulse dal ciclo produttivo (donne con figli in tenera età, disoccupati involontari ecc.), si è trasformata in
precarietà stabile: contratti sempre più brevi e ripetuti, orari di lavoro imprevedibili, retribuzioni fissate
unilateralmente dai datori di lavoro, che sfuggono a qualsiasi tentativo di regolazione, la possibilità di
evitare qualsiasi procedura di licenziamento, essendo sufficiente all’occorrenza non rinnovare i contratti.
Così la precarietà ha modificato profondamente le aspettative nei confronti del lavoro, al quale i giovani
attribuiscono ormai una valenza di mera sopravvivenza e non più di progettualità futura; anche il post-
lavoro è visto con delusione: le pensioni dei precari di oggi domani saranno miserevoli, in quanto il
sistema contributivo – entrato in sofferenza anche a causa della precarietà: è un cane che si morde la coda
– non può garantire una vecchiaia economicamente serena a chi non ha versamenti pensionistici decenti e
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