Da Infolsmpo: Buoni – post verità
«Buoni» sì, ma per oscurare lavoro e tutele
Lo studio realizzato dall’Inca a sostegno della campagna referendaria promossa dalla Cgil. Ultimi tra
gli ultimi, i voucheristi partono svantaggiati sotto ogni punto di vista. Dalle pensioni ai requisiti
contributivi, alle malattie professionali
di Lisa Bartoli
Pagano di più, ma non hanno alcuna tutela previdenziale o assistenziale: per ogni buono lavoro riscosso
versano un’aliquota contributiva pari al 25 per cento,
ma la loro pensione vale molto meno. È quanto
emerge dal dossier Inca sui voucher (testo integrale),
presentato oggi (28 febbraio) a Roma a sostegno della
campagna referendaria promossa dalla Cgil, che negli
ultimi giorni è tornata a chiedere al governo di fissare
al più presto la data della consultazione.
Le pensioni
Secondo lo studio, realizzato dagli esperti
previdenziali del patronato, a parità di condizioni
reddituali, stante l’attuale normativa che impone un
tetto massimo annuo di utilizzo dei ticket di 7 mila
euro (pari a 9.333 euro lordi di reddito), a 70 anni il
percettore di voucher potrà contare su un assegno
mensile di 208,35 euro, quasi la metà di quello del
titolare di partita Iva (402,52 euro), più distante dall’importo che percepirà il collaboratore (526,15 euro)
e dalla pensione del lavoratore a part time (528,89 euro). Se poi il dato del percettore di voucher viene
raffrontato con quello degli agricoli, la differenza diventa rilevantissima: l’agricolo avrà una pensione di
1.019,98 euro, con una differenza rispetto al voucherista pari a 811,63 euro mensili.
Gli ultimi tra gli ultimi, come li definisce l’Inca nel dossier, i voucheristi partono svantaggiati sotto ogni
punto di vista. Dati i vincoli normativi, per ogni anno di lavoro pagato con i voucher, riescono ad
accantonare soltanto 7 mesi di contribuzione effettiva, presso la gestione separata dell’Inps; il che
produce un effetto inevitabile a cascata, che condividono solo con i titolari di partita Iva, per i quali però
l’assegno pensionistico finale risulta comunque più alto (526,15 euro).
Requisiti contributivi
Per maturare 20 anni di contribuzione, requisito minimo per la pensione di vecchiaia, i voucheristi ne
dovranno lavorare quasi 35. Se poi volessero (per assurdo) raggiungere il requisito per la pensione
anticipata (pari a 41 anni e 10 mesi per le donne e 42 anni e 10 mesi per gli uomini), dovrebbero lavorare
(naturalmente, si tratta di un calcolo del tutto teorico) oltre 73 anni, se donna, o 74, se uomo, e rincorrere
(inutilmente, potremmo aggiungere), al pari degli altri l’indice della speranza di vita, cui è legato
Leggi tutto: http://www.rassegna.it/articoli/buoni-si-ma-per-oscurare-lavoro-e-tutele
Terremoto: Sindacati pensionati, Inps
ritiri messaggio su busta pesante
Leggi su www.spi.cgil.it
www.eticaeconomia.it
Post-verità o post-politica? Dalla parola dell’anno
all’uomo dell’anno
Da tempo la prestigiosa Oxford Dictionaries proclama la “parola dell’anno”. Quest’anno la scelta, resa
nota a dicembre, è caduta su post-truth (post-verità). Questa parola, secondo la definizione che ne è stata
data, indica “ circostanze nelle quali i fatti obiettivi sono meno rilevanti, nel formare l’opinione
pubblica, rispetto al richiamo di emozioni e convinzioni personali”.
di Antonio Nicita
La parola dell’anno viene scelta da un comitato di esperti tra 150 milioni di parole e non è tanto un
neologismo, quanto la parola più utilizzata da giornali quotidiani, libri, blog e trascrizioni di
conversazioni e interventi pubblici. Negli ultimi anni, lo sviluppo dell’economia digitale e
dell’espressione in Rete ha influenzato in via crescente la selezione della parola dell’anno: recenti
vincitrici sono state selfie e persino una non-parola, l’emoticon.
Ma, oltre all’influenza della Rete, c’è un altro fenomeno sociale che sembra aver acquisito rilevanza nel
2016. Se, infatti, guardiamo alle nove parole finaliste, troviamo accanto a chatbot, (un programma per il
computer che simula una conversazione con utenti umani, specialmente in Internet) anche woke e alt-
right., entrambi difficili da tradurre, con un solo termine, in italiano. Il primo vocabolo, legato al verbo
wake – svegliarsi ma anche allarmarsi – rimanda all’allarme per una situazione emergente di ingiustizia
sociale, spesso dai connotati razzisti. Il secondo, alt-right, descrive gruppi con ideologia di estrema destra
e reazionaria, che rigettano la cosiddetta mainstream politics e utilizzano Internet come deliberata
strategia di diffusione di contenuti controversi, estremisti e divisivi.
Queste parole finaliste hanno, dunque, stretti legami con post-verità, e ci aiutano a comprendere la sua
diffusione. Infatti, essi forniscono una fotografia più larga di ciò di cui si è più parlato nell’agorà digitale
lo scorso anno: centralità della Rete, dialogo degli utenti con utenti artificiali, allarme per ingiustizie dai
connotati razzisti, diffusione di gruppi estremisti della destra reazionaria, attraverso precise strategie di
comunicazione in Rete.
Nella pagina web dell’Oxford Dictionaries viene riportato un grafico che mostra a partire dalla seconda
metà di maggio del 2016 un’impennata dell’uso del termine post-verità. Il 25 maggio accade che Donald
Trump supera la soglia dei 1.237 delegati (sul totale dei 2.472 che prenderanno poi parte alla formale
incoronazione alla convention di Cleveland). Le primarie non sono ancora finite, ma quel giorno di fine
maggio, diviene certo che il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti sarà lui e la sua
campagna può rivolgersi, selettivamente, ad un solo ‘nemico’, Hillary Clinton.Sappiamo com’è andata.
Trump diventa Presidente e, per il Time, è lui l’uomo dell’anno.
C’è un destino comune che lega l’uomo dell’anno alla parola dell’anno. Alison Flood, del Guardian, nel
commentare la parola dell’anno, afferma esplicitamente che “la diffusione del termine post-verità è da
attribuire in parte alla nomina presidenziale di Trump”. Amy Wang, sul Washington Post, scrive “è
ufficiale, la verità è morta e i fatti sono fuori moda”. E nel lungo articolo, parla diffusamente dei
“Pinocchio ratings” assegnati a Trump dalla fact checker Michelle Ye Hee Lee. Secondo Alexandra Gibb
della CNBC, “’Post-truth’ è la parola dell’anno grazie alla Brexit e alla campagna di Trump”.
“Welcome to the post-truth Presidency”, scrive a dicembre del 2016 Ruth Marcus, sempre sul
Washington Post. Ma già a settembre, l’Economist legava Trump al concetto di post-verità, descrivendo
Trump “come uno dei prominenti professionisti della post-truth politics” ed evidenziando come all’allora
candidato sembrasse “non interessare se le sue parole avessero una qualche relazione con la realtà,
almeno fintanto che esse riuscissero a infiammare i suoi elettori”.
William Davis, del New York Times, ha ricordato che secondo “PolitiFact circa il 70% delle affermazioni
fattuali di Donald Trump ricadono nelle categorie ‘mostly false’ e ‘false’.
Secondo una survey del Pew Center, nelle ultime elezioni presidenziali americane, il 62% degli adulti si è
informato on-line, ma quasi esclusivamente attraverso i social network. In una recente analisi su
BuzzFeedNews, Craig Silverman mostra che le notizie false più popolari sono state condivise su un social
network (Facebook), che gran parte di coloro che hanno letto notizie false, nelle ultime elezioni
americane, hanno dichiarato di averle ritenute vere e che la maggior parte delle notizie false erano pro-
Trump.
In un paper NBER di qualche settimana fa, Allcott e Gentzkow, riportano i risultati di una survey secondo
cui coloro che hanno creduto alle fake news nella campagna elettorale sono circa il 50%. Tuttavia, Allcott
Leggi tutto: http://www.eticaeconomia.it/post-verita-o-post-politica-dalla-parola-dellanno-alluomo-dellanno/