News ItaliaUltimissime Notizie

Da Infolampo: Jobs Act…. – Dopo il No”

jobacts016Jobs Act: dopo il danno, la beffa

Il ministro del lavoro Giuliano Poletti decide di insultare gli oltre 100 mila giovani italiani espatriati in

cerca di opportunità di lavoro. Intanto i numeri parlano: da gennaio a ottobre 2016 sono stati oltre 121

milioni i voucher lavoro

di Raffaella Sirena

Sconfessare i dati Istat e Inps in un colpo solo per affermare che, dopo tutto, il Jobs Act è stata “una

buona legge, ma come tutte le cose va vista nel tempo”. Lo

ha detto e fatto ieri, 19 dicembre, Giuliano Poletti, il

ministro del Lavoro del governo Renzi appena

riconfermato nell’era Gentiloni.

Una dichiarazione che inevitabilmente si sarebbe prestata a

scatenare reazioni. E così è stato. Come se non bastasse il

ministro Poletti ha commentato in maniera lapidaria la fuga

dei cervelli – fenomeno sociale aumentato del 34% negli

ultimi due anni – alzando ancora di più l’asticella della

determinazione e propaganda governativa, compatta nel

difendere una riforma che ormai è evidente non abbia

prodotto i risultati attesi.

A proposito dei 100 mila giovani che se ne sono andati

dall’Italia, il ministro ha affermato: “Non è che qui sono

rimasti 60 milioni di ‘pistola’. Conosco gente che è andata

via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente

questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi”.

Affermazione a dir poco ingiuriosa.

Del resto è una lettura miope della diaspora, tutta italiana,

che coinvolge tanti giovani, tra i 18 e i 40 anni, emigrati

all’estero in cerca di migliori opportunità professionali e,

possibilmente, di stipendi che permettano una vita degna e non ai limiti della sussistenza. Un vero e

proprio scivolone di cui lo stesso Poletti si è accorto, dato che si è scusato per le sue affermazioni dicendo

di essere stato frainteso.

Il boom dei voucher

Il fallimento del Jobs act

Inchiesta: il lavoro fatto a pezzi

Troppo tardi, perché le sue dichiarazioni erano già rimbalzate su tutti i social e il suo nome, ormai da

diverse ore, è al secondo posto dei trending topic di Twitter Italia. Forse, in certe circostanze le scuse non

sono sufficienti ed è quello che emerge dal coro di richieste di dimissioni. Quei giovani connazionali,

Leggi tutto: http://www.rassegna.it/articoli/jobs-act-dopo-il-danno-la-beffa

Domenico Sarti nuovo segretario

generale dello Spi Cgil di Ancona

Leggi su www.cgilancona.it

www.eticaeconomia.it

Dopo il No: qual è l’agenda?

I commenti, dopo il referendum, finora sono stati orientati a valutare le ripercussioni politiche

immediate; concentrati sulla crisi di governo, sui nuovi equilibri all’interno delle diverse forze politiche,

sul futuro personale di Renzi.

di Gaetano Azzariti

Molti partiti cercano di cavalcare la vittoria, per ottenere un successo fulmineo, andando alle elezioni.

Persino il partito responsabile della débâcle referendaria tenta di risorgere dalle ceneri, mettendosi il più

rapidamente possibile alle spalle la questione della costituzione e della sua riforma, per ripresentarsi agli

elettori come se nulla fosse accaduto.

C’è un gran bisogno di qualcuno che guardi più in là se si vuol far sì che il referendum abbia un seguito

non effimero. Una decisione popolare sulla costituzione deve intervenire sul corso della storia politica e

sociale di questo paese che da oltre vent’anni arretra: può legittimare un cambiamento radicale. Arrestare

il lungo regresso, è questo il compito ampio, ambizioso, ma ineludibile, che la cesura espressa dal voto

popolare ci affida. Un’impresa che non può essere semplicemente delegata ai partiti, perlopiù screditati e

compromessi; un obiettivo che non può essere barattato neppure con la vittoria alle prossime elezioni.

Sarebbe probabilmente una vittoria di Pirro, che condannerebbe comunque i vincitori ad operare entro un

sistema istituzionale e culturale compromesso a tal punto da rendere assai probabile il fallimento. Inutile

nasconderlo: dobbiamo attrezzarci ad una lunga marcia.

Per cambiare finalmente strada, muovendosi nella giusta direzione, bisogna anzitutto comprendere il

senso profondo del voto che si è espresso contro la riforma Renzi-Boschi. Esso deve essere interpretato

come la volontà di riaffermare i principi della costituzione, determinazione espressa con uno spirito

tutt’altro che conservatore. Solo la retorica del potere poteva far credere che si era contro questa riforma

perché soddisfatti dello stato di cose presenti. Nessuno ha difeso l’odierno bicameralismo agonico, né

l’attuale regionalismo caotico, in caso s’è compreso che la riforma avrebbe peggiorato la crisi. Il rifiuto

ha riguardato la pretesa di accentrare il potere, contrapponendo un’altra idea di costituzione. Un voto

arrabbiato, in caso, ma non certo arreso. Tant’è che contro la riforma si sono espressi soprattutto i più

giovani e i meno abbienti, da sempre il motore del cambiamento. Ma – si potrebbe replicare – anche i

fautori della riforma intendevano “cambiare”. È vero: la riforma avrebbe indubbiamente prodotto una

profonda trasformazione dell’assetto istituzionale definito in costituzione. Dunque, a ben vedere, si sono

scontrati due diversi modi di intendere il rapporto tra governanti e governati, diverse visioni di

democrazia costituzionale. Da un lato, coloro che ritengono essenziale semplificare la complessità sociale

e rendere autoreferenziale il sistema politico e le istituzioni rappresentative (seguendo il modello classico

della democrazia d’investitura), dall’altro chi crede si debba estendere la partecipazione e legittimare i

conflitti sociali, rendendo le istituzioni rappresentative il luogo della composizione e del compromesso

politico (secondo un diverso e altrettanto tipico modello di democrazia pluralista e conflittuale). La prima

prospettiva è quella perseguita negli ultimi vent’anni non solo in Italia. La seconda ha vinto il

referendum.

Entro questo secondo schema dovremmo dunque lavorare, non sarà facile dare forma e sostanza al

modello indicato. D’altronde, non può pretendersi che il rifiuto del 4 dicembre si trasformi come

d’incanto in un progetto costituzionale inverato. Sta a noi costruirlo. Un viatico però c’è, ed è la

costituzione, che non a caso esprime proprio quel certo modello di democrazia pluralista e conflittuale

che da tempo si vuole sterilizzare. Sono dunque i suoi principi che ci indicano la rotta. Tutti coloro che in

questi anni si sono adoperati per favorire un cambiamento contro la costituzione avranno difficoltà a

comprendere che essa possa oggi rappresentare la leva della trasformazione radicale della realtà. Ma non

può invece stupire chi conosce la forza prescrittiva (“rivoluzionaria”) che i testi costituzionali hanno

espresso nella storia. E che ancora possono dispiegare.

Certo per impegnarsi in questa direzione diventa necessario recuperare una solida cultura costituzionale.

Essa sembrava essere scomparsa, affogata nella retorica del revisionismo costituzionale dominante. Ed

invece l’abbiamo ritrovata – anche con qualche meraviglia – nei tanti incontri che hanno caratterizzato

questa lunga, interminabile, campagna referendaria. In fondo un merito grande dobbiamo riconoscerlo ai

nostri improvvidi revisionisti. Grazie a loro di costituzione abbiamo discusso per mesi e il popolo ha

risposto non solo nelle urne, ma anche nelle piazze. In giro per l’Italia sono sorti comitati, si sono

* Una precedente versione di questo articolo è stata pubblicata su Il Manifesto dell’11 dicembre 2016

Leggi tutto: http://www.eticaeconomia.it/dopo-il-no-qual-e-lagenda/