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Da Infolampo: Referendum, Anpi, Arci, Cgil, – Legge revisione costituzionale

referendum-costituzioneReferendum: appello di Anpi, Cgil e Arci

Carlo Smuraglia, Susanna Camusso e Francesca Chiavacci si rivolgono alle cittadine e ai cittadini in

vista del voto referendario: “Non si tratta di una legge ordinaria ma della Costituzione.

Consapevolmente e responsabilmente, votate NO”

“Alle cittadine e ai cittadini raccomandiamo un voto consapevole e responsabile. Non si tratta di una

legge ordinaria ma della Costituzione, la nostra Carta fondamentale”. Inizia così il breve appello lanciato

oggi, 1 dicembre, da Carlo Smuraglia, presidente nazionale

Anpi, Susanna Camusso, segretaria generale Cgil, e

Francesca Chiavacci, presidente nazionale Arci.

“Modifiche sbagliate e destinate a non funzionare –

affermano – così come lo stravolgimento del sistema ideato

dai Costituenti, avrebbero effetti imprevedibili e disastrosi

per l’equilibrio dei poteri, per la rappresentanza, per

l’esercizio della sovranità popolare, in sostanza per la

stessa democrazia, che invece va rafforzata, potenziata e

difesa con la piena attuazione della Costituzione

repubblicana”. Di qui l’invito finale: “Consapevolmente e

responsabilmente, votate NO”.

Un altro appello a votare No è stato lanciato da cento

giuslavoristi (leggilo qui in pdf). “Il nostro giudizio –

affermano gli esperti di diritto del lavoro – è negativo, sia

per una valutazione complessiva della riforma che si

sottopone al voto e dell’assetto istituzionale che si intende

porre in essere, sia per ragioni specifiche attinenti alla materia del lavoro”. Con riferimento ai temi

lavoristici, “le novità introdotte, pur essendo relativamente limitate in quanto la materia rimane, come è

attualmente, nella competenza pressoché esclusiva dello Stato, non sono affatto convincenti”.

I timori riguardano l’abolizione della competenza concorrente di Stato e regioni che, per quanto riguarda

la tutela e sicurezza del lavoro “avrebbe l’effetto di riportare tutte le funzioni ora svolte dai Servizi per

l’impiego regionali o provinciali alla gestione del ministero del Lavoro. Tale modifica comporterebbe un

notevole dispendio di risorse per il trasferimento e la riorganizzazione delle funzioni che, in assenza di

uno stanziamento adeguato di fondi, non ne garantisce in alcun modo un miglioramento qualitativo”.

Inoltre, “l’inserimento in Costituzione di un esplicito riferimento alle politiche attive del lavoro tra le

competenze dello Stato, è solo apparentemente innovativo, in quanto la materia rientrerebbe comunque

nella più ampia definizione di tutela e sicurezza del lavoro. Infine, “la riforma costituzionale nulla innova

in materia di previdenza sociale, mentre il ritorno della previdenza complementare e integrativa alla

competenza esclusiva statale, senz’altro condivisibile, ha un effetto praticamente nullo: di fatto, anche

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Welfare: Cgil e Spi, passi avanti

su non autosufficienza

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Ragionando sul merito della legge di revisione

costituzionale

Due premesse. La prima: sono uno statistico, non un giurista. Rispetto alla legge di revisione

costituzionale la competenza professionale mi è dunque di modesto aiuto: direttamente, sulla riduzione

dei costi di funzionamento delle istituzioni; indirettamente, per l’attitudine ad affrontare le questioni con

ottica sistematica e attenzione ai fatti. Per il resto, sono un cittadino informato. La seconda premessa: se

qualcuno dei lettori ritenesse che nella scelta fra il Sì e il No al referendum si debba tenere conto del

contesto politico, perderebbe il suo tempo andando oltre queste righe.

di Ugo Trivellato

Penso, infatti, che la scelta debba essere guidata dalla valutazione sul merito della riforma. Come ha

scritto Nadia Urbinati: “Mai come ora è importante che i cittadini non si facciano derubare della loro

funzione primaria, poiché – nonostante i leader politici cerchino di farne un plebiscito pro o contro [il

governo] – questo è un referendum costituzionale, una decisione sovrana sull’ordine istituzionale che

vogliamo”. La Costituzione – l’attuale o quella riformata – resterà. E suonano sorprendenti affermazioni

del tipo “La riforma è imperfetta, ma l’importante è incominciare a cambiare; poi la si migliorerà”. La

capacità di apprendere dall’esperienza è essenziale per migliorare le politiche pubbliche. Ma invocarla per

sostenere una revisione della Costituzione, della quale si riconoscono imperfezioni, è segno di spensierata

sconsideratezza.

Dico subito che su vari temi circoscritti la riforma è condivisibile. Sull’abolizione del CNEL. Sulla

promozione della parità di genere nella rappresentanza. Sulla limitazione del ricorso ai decreti-legge.

Sulla corsia preferenziale riservata ai disegni di legge del Governo. E via dicendo. Non indugio su di essi,

se non per notare che alcuni sono stati inutilmente enfatizzati (sulla parità di genere serve aggiungere

qualcosa all’art. 3 della Costituzione?) e diversi altri si sarebbero potuti affrontare con strumenti più

semplici.

I costi di funzionamento delle istituzioni. Il tema della riduzione dei costi di funzionamento delle

istituzioni non ha grande rilievo. Ha però assunto una visibilità abnorme, e distorta, per due ragioni: la

ridda delle prime stime, prive di evidenze empiriche, dai 57,7 milioni di una stringata nota della

Ragioneria Generale dello Stato ai 490 milioni della ministra Boschi; la successiva, becera deriva sui

costi della politica che ha imperversato sui media, con toni a volte aberranti. Grazie alla documentata

analisi di Roberto Perotti, oggi è chiaro che il risparmio massimo per i contribuenti è di 130 milioni a

regime.

Vengo alle innovazioni cruciali: superamento del bicameralismo paritario e composizione e funzioni del

nuovo Senato; definizione di nuovi rapporti fra Stato e Regioni.

Il superamento del bicameralismo paritario e il nuovo Senato. La motivazione per abbandonare il

bicameralismo paritario è l’eccessiva lunghezza del procedimento legislativo, per l’andirivieni delle

proposte di legge fra Camera e Senato. Nel dibattito referendario l’attenzione si è polarizzata sul fatto che

il Governo deve avere la fiducia delle due Camere. Che la doppia fiducia al Governo sia ripetitiva, forse

di intralcio, è vero. Ha dunque senso riflettere su puntuali modifiche al riguardo, a partire dai regolamenti

parlamentari.

Ma il conferimento della fiducia non è un atto abituale. Il compito primario e continuativo del Parlamento

è altro: legiferare, possibilmente bene. Se si mette mano al bicameralismo paritario, serve innanzitutto

identificare le cause della sua inefficienza. Ora, non è vero che il bicameralismo sia il principale

responsabile di un procedimento legislativo farraginoso (vedi il recente contributo di Maurizio Franzini).

È la diagnosi a essere sbagliata: si approvano troppe leggi, fatte spesso in fretta e ancora più spesso male.

E i ritardi, quando ci sono, sono dovuti essenzialmente a fattori politici.

Ma entriamo nel merito della riforma. Il nuovo Senato «rappresenta le istituzioni territoriali […]. È

composto da 95 senatori rappresentativi delle istituzioni territoriali e da 5 senatori […] nominati dal

Presidente della Repubblica». Qual è la coerenza fra la missione affidata al Senato – rappresentare le

istituzioni territoriali – e la sua composizione?

Trascuro alcune bizzarrie: 5 cittadini illustri nominati in un’assemblea di rappresentanza delle istituzioni

territoriali; 21 sindaci senatori, quando il loro mandato è altro. Resto alla sostanza. L’idea di un “Senato

delle Regioni” era buona; la sua traduzione operativa è, però, incongrua. Infatti, «i Consigli regionali […]

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