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Da Infolampo: Fiducia – povertà

C_2_articolo_3004538_upiImageppPeggiora la fiducia di famiglie, lavoratori e pensionati

Clima negativo rispetto al trimestre precedente. Speciale Europa: dopo la Brexit, sette italiani su dieci

favorevoli alla permanenza nell’Unione. È quanto emerge da un doppio studio realizzato dalla

Fondazione Di Vittorio insieme all’istitiuto Tecnè

Peggiora il clima di fiducia complessivo rispetto al trimestre precedente, in particolare tra famiglie,

lavoratori e pensionati. È quanto emerge dalla ricerca sulla fiducia economica delle famiglie e delle

imprese realizzata dalla Fondazione Di Vittorio e dall’Istituto Tecnè relativa al secondo trimestre 2016

(qui il testo integrale in pdf). Solo il 4,7% delle famiglie –

secondo lo studio – dichiara di avere migliorato la propria

condizione economica a fronte di un 32,5% che dichiara di

averla peggiorata. A soffrire di più è ancora una volta la

popolazione a basso reddito: lavoratori dipendenti, precari,

disoccupati e pensionati. Di questi, solo il 3,3% dichiara di

avere migliorato la propria condizione a fronte di un 43,7%

che dichiara di averla peggiorata. Anche dal lato

dell’occupazione calano le attese positive con giudizi che

sembrano riflettere i timori, per l’anno in corso, non solo per la

fine dell’effetto degli sgravi contributivi ma anche per il

raffreddamento delle attese su crescita e domanda interna, in

particolare sul versante dei consumi. Tra lavoratori, pensionati,

disoccupati e precari, la quota che prevede una diminuzione

del numero di occupati sale addirittura al 47,7%, in crescita del

7,4% in un solo trimestre.

I due istituti hanno pubblicato anche lo speciale: “Gli italiani e l’Europa”. Restare o uscire? Per il 70%

degli italiani intervistati non bisogna seguire l’esempio del Regno Unito, solo il 21,7% è favorevole

all’uscita, mentre l’8,3% non esprime indicazioni. A favore della permanenza è il 58,5% dei lavoratori in

proprio, il 62,6% dei dipendenti, il 78,6% dei pensionati e l’88,5% degli studenti. Per quanto riguarda

l’analisi per titolo di studio, favorevole il 72,1% dei laureati, il 68,2% di chi ha conseguito un diploma

superiore e il 68,1% tra chi ha una licenza media o elementare. I favorevoli alla permanenza nell’Ue

crescono rispetto alle precedenti rilevazioni: 70% quest’anno, il 69,4% nel 2015, il 67,3% nel 2013.

Leggermente più bassa, ma comunque ampia e in crescita, anche la quota degli italiani favorevoli alla

permanenza nell’Eurozona: il 68,6% quest’anno, il 67,1% un anno fa e il 62,5% a dicembre 2013.

Scarsa la percezione sull’operato delle principali istituzioni continentali. Il 26,1% ha fiducia nel

Parlamento europeo (28,1% nel 2015 e 29,8% nel 2013). Stessa tendenza interessa la Commissione

europea (22,4% quest’anno, 27,9% nel 2015 e 31,3% nel 2013) e Consiglio dell’Unione Europea (22,5%

nel 2016, 28,4% nel 2015 e 32,1% nel 2013). In controtendenza solo la Bce che registra il 38,5% di

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Pensioni, continua il confronto

con il governo

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Quando la povertà diventa strutturale

Secondo i dati diffusi dall’Istat 1 milione e 470 mila famiglie (5,7% di quelle residenti) vivono in

condizione di povertà assoluta. In Italia su 60 milioni di abitanti ci sono quasi 12 milioni di poveri

di Antonio Ciniero

I dati sulla povertà diffusi nei giorni scorsi dall’ISTAT sono allarmanti: 1 milione e 470 mila famiglie

(5,7% di quelle residenti) vivono in condizione di povertà assoluta, per un totale di 4 milioni 102 mila

persone (6,8% della popolazione residente) e ben 2 milioni 654 mila famiglie e 7 milioni 815 mila

persone vivono in condizione di povertà relativa. In Italia ci sono quasi 12 milioni di poveri su 60 milioni

di abitanti.

Questi dati sono l’indicatore di una situazione strutturale e non semplicemente congiunturale. La crisi

degli ultimi anni ha, al più, aggravato processi di esclusione sociale vecchi almeno di un trentennio. Si

tratta di processi che colpiscono in misura sempre più consistente anche chi ha un lavoro: la povertà

assoluta interessa il 9,7% delle famiglie in cui il principale percettore di reddito è un operaio.

I processi di terziarizzazione e l’informalizzazione dell’economia, il peso crescente delle forme di lavoro

nero, precario e temporaneo, denunciano lo scollamento tra l’attività lavorativa, da un lato, e l’incapacità

delle politiche pubbliche di garantire condizioni minime di vita e integrazione sociale, dall’altro. Il

cumularsi di svantaggi sociali a carico di determinati gruppi di popolazione – minoranze, immigrati,

abitanti di aree periferiche (ma non solo) delle grandi città del nord Italia, abitanti del meridione – si

traduce, sempre più drammaticamente, in un ampliamento della massa di soggetti costretti a vivere in

condizione di esclusione sociale.

Gli assetti societari contemporanei, risultato dell’alchimia liberista, sono caratterizzati da sempre

maggiori squilibri socio-economici per i quali esistono forme di protezione sociale sempre più ridotte, di

fatto inesistenti o comunque inefficaci, specie quando hanno natura palesemente elettoralistica. Il caso

italiano in ciò è emblematico, valga come esempio tra i tanti il bonus bebè. In un paese che a livello

europeo è tra quelli che hanno meno strutture di asilo nido in rapporto al numero dei potenziali fruitori del

servizio, si è avuto l’ardire di presentare come politica per le famiglie niente di meno che: ottanta euro al

mese!

Oggi, i segmenti di una nuova emarginazione, a cavallo tra lavoro e non lavoro, si allargano sempre più e

arrivano a comprendere anche quegli strati che fino a pochi anni fa erano considerati garantiti. Tra i

fattori che espongono al rischio povertà non c’è più solo la perdita di lavoro, banalmente anche la nascita

di un figlio, specie se il secondo o il terzo, può spingere una famiglia al disotto della soglia di povertà!

Non casualmente è aumentato anche il numero dei minori in condizione di povertà.

Nonostante queste evidenze, un serio impegno per ricercare soluzioni politiche è del tutto assente e

laddove c’è difficilmente assume forme diverse della cosiddetta flexsecurity. Insomma, la progettazione

di politiche economiche che facciano del lavoro il fondamento della società (come vorrebbe, nel caso

italiano, la nostra stessa costituzione) e il pilastro delle politiche redistributive è semplicemente

inesistente.

L’impegno per implementare i servizi di welfare non trova spazio nell’odierna agenda politica nazionale e

internazionale, anzi la direzione è un’altra: solo il ragionieristico contenimento della spesa pubblica

dettata dal dogma dell’austerity. Così si continuano a smantellare parti sempre più consistenti di welfare,

si sospendendo servizi e diritti, si colpiscono le fasce sociali più deboli e si fanno aumentare cronicamente

le sacche dell’esclusione sociale. In questo scenario, il diffondersi della paura, dell’insicurezza

individuale, dello sfilacciamento sociale, il venir fuori di atteggiamenti violenti e xenofobi, come la storia

ci ha insegnato, non è affatto un aspetto da trascurare.

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