Da Infolampo: CGIL, – Democrazia
Cgil: risultato netto, ora la Carta dei diritti
La segreteria nazionale: “Il No ha vinto in modo inequivocabile, grazie a tutti i militanti per l’impegno
profuso. Fondamentale la nostra libertà da logiche di schieramento. Ora grande impegno per sostenere
la proposta di legge sul nuovo Statuto”
Il referendum sulla riforma costituzionale “ha dato un esito inequivocabile, con una netta maggioranza di
No, ancor più significativa in considerazione di un
numero di votanti oltre il 68%, al di là delle più
ottimistiche previsioni. La segreteria della Cgil ringrazia
i dirigenti, i delegati ed i militanti per l’impegno profuso
a sostegno delle posizioni di merito che hanno motivato
l’indicazione di voto da parte della Cgil , nel rispetto
delle scelte individuali di singoli dirigenti e militanti”.
Inizia così il comunicato della segretaria nazionale della
Cgil, diffuso il giorno dopo il referendum che ha visto la
vittoria del No.
Il sindacato fa il punto della situazione: “È stato
importante – afferma – aver scelto una posizione scevra
da logiche di schieramento e di contrapposizione, bensì
tesa a rimarcare come la riforma proposta, pur proponendo titoli giusti, fosse profondamente sbagliata nel
suo svolgimento, nella sua impostazione di accentramento dei poteri dell’esecutivo”. La segreteria
“sottolinea altresì come la battaglia comune condotta con Anpi e Arci abbia in modo determinante
contribuito a far conoscere a tante e tanti il merito della riforma e le ragioni di una posizione che aveva ed
ha come unico scopo quello di difendere la Costituzione nata dalla Resistenza”.
Da parte sua, Corso Italia “continuerà con fermezza la propria battaglia per la piena attuazione della Carta
costituzionale, per un allargamento degli spazi democratici di partecipazione dei cittadini e per una
coerente riduzione dei costi della politica, senza nulla concedere al qualunquismo, al populismo di chi
cavalca l’antipolitica che è anzitutto nemica della democrazia. In particolare, la Cgil impegna tutte le
proprie strutture ed i propri delegati e militanti a sviluppare una ancora più forte iniziativa a sostegno
della proposta di legge di iniziativa popolare ‘Carta dei diritti fondamentali del lavoro’ di cui la
Commissione Lavoro della Camera dei deputati può e deve iniziare l’esame fin dai primi giorni del
prossimo anno”.
Proprio la Carta dei diritti, infatti, rappresenta “l’occasione per attuare una parte fondamentale della
Costituzione, con particolare riferimento ai temi del lavoro, della rappresentanza sociale e del diritto di
cittadinanza. Cosi come la Cgil è da subito mobilitata a sostenere i tre referendum che accompagnano la
Carta dei diritti fondamentali del lavoro e che riguardano tre nodi fondamentali per un lavoro più
dignitoso: abrogazione dei voucher, diritto alla reintegra in caso di licenziamento illegittimo nelle aziende
con più di cinque dipendenti, reintroduzione della piena responsabilità solidale negli appalti. La
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Povertà: 1 italiano su 4 a rischio di
povertà o esclusione sociale.
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Più democrazia e una nuova stella per la sinistra europea
Le discussioni sull’accordo di libero scambio tra l’Ue e il Canada (Ceta) e gli emendamenti imposti dalla
Vallonia hanno cambiato forse per sempre il modo in cui saranno negoziati i trattati commerciali. La
personalità e le convinzioni del presidente della regione belga Paul Magnette hanno avuto un ruolo
chiave.
Di Gian Paolo Accardo
Il 30 ottobre il Canada e l’Unione europea hanno firmato a Bruxelles l’Accordo economico e
commerciale globale (Ceta), che stabilisce una zona di libero scambio tra i due. Si sono concluse così due
settimane di passione scatenate dal veto del parlamento della regione belga della Vallonia, che ha fatto
slittare la firma del trattato, inizialmente prevista per il 27 ottobre.
Come tutti gli accordi commerciali europei cosiddetti misti, per essere valido il Ceta deve infatti essere
approvato dai governi dei paesi membri e dal parlamento europeo, ed, eventualmente, dai parlamenti
nazionali e regionali (se ne hanno la competenza). Il Belgio è l’unico paese i cui parlamenti (non meno di
sette: camera e senato federali, parlamenti regionali vallone, fiammingo e di Bruxelles-capitale, comunità
francofona e germanofona) devono esprimersi prima che un accordo venga firmato. Tutti avevano dato il
via libera alla firma, tranne il parlamento della Vallonia, al quale si è associato quello della regione di
Bruxelles-capitale. Il veto della Vallonia e di Bruxelles, con i loro 4,5 milioni di abitanti, è una
conseguenza imprevista della federalizzazione spinta voluta dai nazionalisti fiamminghi, che invece ora
premevano per l’adozione rapida del Ceta.
Il 14 ottobre l’assemblea di Namur, dove hanno sede le istituzioni vallone, ha negato al governo federale
il mandato a firmare il Ceta. Il motivo, ha spiegato il ministro-presidente della regione, il socialista Paul
Magnette, è che l’accordo non fornisce sufficienti garanzie in materia di agricoltura, di norme sociali e
ambientali e di protezione giuridica, poiché imporrebbe di fatto gli standard canadesi meno elevati alle
imprese e ai consumatori europei. In particolare suscita ampie riserve il previsto ricorso all’arbitraggio
privato nelle cause mosse dalle imprese contro gli stati. Questo consentirebbe infatti a una multinazionale
che investe in un paese straniero di denunciare uno stato che ha una politica contraria ai suoi interessi
dinanzi a dei giudici privati. Una misura prevista anche dal controverso accordo di libero scambio in
corso di discussione tra l’Ue e gli Stati Uniti (Ttip), e fra i principali motivi di stallo dei negoziati su
quest’ultimo.
Nel suo sentito discorso al parlamento vallone – prendete il tempo di guardarlo: è un modello di
pedagogia e di alta politica – , Magnette, docente di diritto europeo all’Università libera di Bruxelles, ha
tessuto le lodi del “processo democratico” con il quale il Ceta è stato esaminato dai rappresentanti
(associazioni, sindacati, partiti, ong) della società civile vallone e ribadito di “non essere ostile al
commercio internazionale”, ma di voler difendere alcune questioni di principio.
“C’è un problema nel modo con il quale sono negoziati i trattati commerciali”, ha affermato Magnette,
riferendosi anche al Ttip e ai negoziati in seno all’Organizzazione mondiale del commercio. “Vogliamo
regole sociali, economiche e ambientali che trasferiscano nelle relazioni tra gli stati ciò che siamo riusciti
a costruire all’interno dei nostri paesi in decenni di lotte sociali. Vogliamo che il Ceta sia l’occasione per
fissare nei trattati commerciali degli standard elevati al punto che diventeranno la norma europea, anche
per i negoziati futuri. È questa la posta in gioco”. Citando la necessità della trasparenza nella cosa
pubblica evocata da Kant, Magnette ha anche criticato “l’opacità dei negoziati” sul Ceta, che si sono
svolti a porte chiuse per oltre sei anni.
Al rifiuto vallone sono seguiti dieci giorni di intense pressioni su Magnette da parte dei leader di mezza
Europa, a cominciare da un altro socialista, il presidente francese François Hollande, e di diversi
commissari europei. Persino il primo ministro canadese, il popolare ed apprezzato in Europa Justin
Trudeau, ha chiamato il premier belga Charles Michel per fargli parte del sentimento di “umiliazione”
provato dal Canada nel sentirsi definito il “cavallo di Troia degli Stati Uniti”, avvertendolo che Ottawa
“non andrà oltre nelle concessioni” fatte alle richieste europee. Trudeau ha a un certo punto anche
mandato a Namur la ministra per il commercio estero Chrystia Freeland, che è però tornata a mani vuote
dopo un’andata e ritorno lampo.
Malgrado le pressioni e gli ultimatum della commissione e del consiglio europei , Magnette,
soprannominato “Wallonix” in riferimento agli irriducibili galli di Astérix, ha retto, grazie anche al
sostegno del leader del Partito socialista belga Elio Di Rupo e dei suoi compagni di coalizione, della
stragrande maggioranza della popolazione francofona belga e da migliaia di messaggi di sostegno via
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