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Infolampo: clima – ecologia

Clima, l’apartheid del ventunesimo secolo
I Paesi in via di sviluppo, per nulla responsabili dello stress termico che sta mettendo in ginocchio il
pianeta, pagheranno fino all’80% dei costi. E a rimetterci saranno soprattutto i lavoratori dei settori più
deboli come l’agricoltura e le costruzioni
di Simona Fabiani
Le conseguenze del cambiamento climatico sono già evidenti ora che la temperatura media globale è
aumentata di 1 grado rispetto al livello preindustriale: temperature record, calotte di ghiaccio che si
sciolgono, incendi, alluvioni e uragani devastanti e più
frequenti, milioni di persone affette da malnutrizione a causa
della siccità, costrette a scegliere tra fame e migrazioni forzate,
distruzione degli ecosistemi marini con conseguenze disastrose
sui sistemi alimentari di milioni di persone. L’accordo di Parigi
del 2015 ratifica l’obiettivo di contenere l’aumento della
temperatura ben al di sotto dei 2 gradi, facendo ogni sforzo per
limitarlo entro 1 grado e mezzo, ma sappiamo che gli impegni
volontari assunti dai vari Stati, se fossero rispettati, porteranno
a un incremento della temperatura superiore a 3 gradi. Con 2
gradi si stimano fino a 400 milioni di persone a rischio fame e
1-2 miliardi di persone che non avranno accesso adeguato
all’acqua. Tra il 2030 e il 2050 si ipotizzano 250 mila decessi
aggiuntivi all’anno per malnutrizione, malaria, diarrea e stress
da calore. Un cambiamento che potrebbe determinare circa 140
milioni di “migranti climatici”.
Come se non bastasse, tutto questo aggraverà la povertà e le disuguaglianze, determinando quello che è
stato definito un “apartheid climatico”. I Paesi in via di sviluppo, quelli con una responsabilità quasi
nulla, pagheranno il 75-80% dei costi. I governi non stanno agendo, il tempo stringe e non si stanno
attivando nemmeno per raggiungere gli attuali inadeguati impegni. Non solo, continuano a sovvenzionare
l’industria dei combustibili fossili con 5,2 trilioni di dollari l’anno, il 6,3% del Pil mondiale. L’ultimo
catalogo dei sussidi ambientalmente dannosi del ministero dell’Ambiente, ad esempio, certifica che nel
2017 l’Italia ha speso 16,8 miliardi di euro per sussidi alle fonti fossili. Eppure le aziende produttrici di
combustibili fossili sono le principali responsabili del cambiamento climatico, rappresentando il 70%
delle emissioni prodotte dall’uomo. E non sono intenzionate a invertire le loro politiche: finché prevedono
di ricavarne profitti, faranno di tutto per nascondere le loro responsabilità e negare le cause umane del
cambiamento climatico.
Sappiamo che l’adozione delle misure necessarie per affrontare i cambiamenti climatici porterà
inevitabilmente la perdita di posti di lavoro nei settori ad alta intensità di carbonio, ma sappiamo anche
Leggi tutto: https://www.rassegna.it/articoli/clima-lapartheid-del-21-secolo

Nuovo (e buon) lavoro cercasi

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Il malsviluppo e la crisi sociale ed ecologica
A Giorgio Nebbia, recentemente scomparso. Figura preziosa come presenza umana, intellettuale e
politica della sinistra italiana. Ambientalista rigoroso e comunista, la giustizia sociale e la giustizia
ambientale come pensiero vissuto. A lui la nostra gratitudine per averci aiutato negli anni decisivi della
formazione culturale e politica.
di Giorgio Riolo
Il prossimo 29 luglio è il cosiddetto Overshoot Day (*) il Giorno del Superamento-Supesfruttamento.
Vale a dire, della possibilità del pianeta terra di rigenerare-ripristinare l’equilibrio delle risorse a causa del
consumo-emissione di CO2-inquinamento-rifiuti ecc. su scala mondiale. Questa misura è calcolata ogni
anno dalla benemerita Rete mondiale dell’Impronta Ecologica (Global Footprint Network). Nel 1970 il
giorno era il 31 dicembre. Il saldo allora era a somma zero. Oggi per 5 mesi e qualche giorno deprediamo
letteralmente la terra. Da sommare alle depredazioni degli anni precedenti. L’accumulazione del capitale
e l’accumulazione della violenza ambientale, sul vivente.
Naturalmente, con la gerarchia mondiale di questo furto. Gli Usa (328 milioni di abitanti) avrebbero
bisogno di 5 pianeti a questo ritmo dell’impronta ecologica dei suoi abitanti. La Cina 2,2 pianeti (ma 1
miliardo e 420 milioni di abitanti) e l’India 0,7 (ma 1 miliardo e 370 milioni di abitanti) e via scalando
nella popolazione mondiale delle periferie del mondo. Inoltre è annunciato per il prossimo agosto 2019 il
nuovo rapporto dello Ipcc (gruppo di lavoro intergovernativo di scienziati del clima sul cambiamento
climatico, legato all’Onu ). Ma basta lo Special Report del 2018 per allarmarci. Siamo già dentro a
processi irreversibili.
Per l’occasione, anticipo qui di seguito alcune parti dell’ultimo capitolo di un libro scritto con
Massimiliano Lepratti sulla “storia globale dell’umanità”, in attesa di pubblicazione. È una sintesi di circa
350 pagine scritta per un pubblico largo, senza pretese specialistiche, ma con l’intento di contribuire a una
battaglia culturale importante, con riferimenti bibliografici minimi. Facendo tesoro della lezione di Samir
Amin, della critica radicale dell’eurocentrismo e dell’occidentalocentrismo, secondo l’impostazione del
sistema-mondo dello storico francese Fernand Braudel ecc.
Nel capitalismo “tutto si tiene”. Il fine è sempre quello di tenere assieme giustizia sociale (e di genere) e
giustizia ambientale. Non sovrapposte, disgiungibili, bensì fuse, contestuali, della stessa sostanza
(consustanziali, qualcuno direbbe). Dopo di che, il difficile è quale militanza, quale azione politica e
sociale farne scaturire. Tutti i problemi che rimangono entro una sinistra decente (alternativa ecc.) in
questa epoca storica.
1.Il disastro ambientale e sociale di Bhopal. Il “bianco” a New York e i “neri” in India
Nella notte del 3 dicembre 1984 a Bhopal, in India, si verificò il più grande incidente industriale della
storia, a parte l’incidente della centrale nucleare di Chernobyl (Urss) del 1986. Un’esplosione
nell’impianto chimico della Union Carbide liberò nell’aria una enorme nube gassosa di una sostanza
velenosa. La nube colpì soprattutto la bidonville di Bhopal, circa mezzo milione di persone.
Nell’immediato morirono tra le 2.000 e le 8.000 persone. Più di 10.000 in seguito, nei giorni e mesi
successivi, e circa 120.000 hanno tuttora bisogno di cure mediche. Ancora oggi nascono bambini con
malformazioni e malattie genetiche.
Le cifre sono approssimative. Solo associazioni di volontariato e organizzazioni non governative si sono
impegnate per fare luce sulle conseguenze dell’incidente. Naturalmente la multinazionale Usa Union
Carbide e il governo locale del Mandhya Pradesh, e men che meno il governo centrale indiano, non
avevano interesse a rivelare le cifre esatte. In quella fabbrica si produceva l’isocianato di metile, un
componente chimico che serviva per ottenere un insetticida usato in agricoltura.
La Union Carbide aveva sede legale e uffici a New York. Solo grazie alla mobilitazione popolare dei
lavoratori sopravvissuti, ai sindacati indiani e alle associazioni di solidarietà fu intrapresa una causa legale
contro la multinazionale e contro i managers locali della filiale indiana.
Il presidente e amministratore delegato Usa Warren Anderson non si è mai presentato al processo in
India. Solo nel 2009 il governo indiano ha chiesto agli Usa la sua estradizione. Nel 2014 Anderson è
morto, di morte naturale, a casa sua. Nel 2010 i managers indiani sono stati condannati a due anni di
carcere e a circa 2.000 dollari di multa. Sono stati scarcerati dietro cauzione di 500 dollari. E comunque
hanno fatto appello.
500 dollari e Warren Anderson latitante di lusso di contro a una montagna di morti, di continui patimenti,
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