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Infolampo: Marchi in fuga – Flattax

Marchi in fuga, lavoro in fumo
L’addio all’Italia del caffè Hag è solo l’ultimo episodio di brutale delocalizzazione. Nessuna crisi ma
soltanto un calcolo di ottimizzazione dei profitti attraverso una presunta riduzione dei costi. Una
tendenza che tutti denunciano ma nessuno ferma
di Giorgio Frasca Polara
Se ne va dall’Italia anche l’unico stabilimento italiano di Cafè Hag: anche qui sfacciata delocalizzazione
con la produzione dello stabilimento di Andezeno (Torino) che viene spostata in un altro dei siti europei
di una multinazionale, con il risultato che dalla fine di
quest’anno saranno sul lastrico cinquantasette dipendenti.
L’annuncio è stato accolto come un fulmine a ciel sereno
perché qui sono nati gli Hag e gli Splendid, e sino a qualche
settimana addietro qui si producevano 5mila tonnellate di
decaffeinato. Nessuna crisi insomma, soltanto un calcolo di
ottimizzazione dei profitti attraverso una presunta riduzione dei
costi.
Un po’ di storia. Negli ultimi anni il marchio è passato di mano
in mano diverse volte sino a quattro anni fa quando la
Mondelez lo ha ceduto alla Jacobs Douwe Egbert (Jde),
multinazionale olandese con sede ad Amsterdam. Ora il 55% di
Jde è in mano alla Acorn Holdings, a sua volta sussidiaria del
gigante tedesco-lussemburghese Jab Holding Company. Crisi di
questi colossi? Maccché: nemmeno un anno fa la casa-madre ha
ampliato i suoi interessi proprio nel settore caffè mangiandosi
l’americana Panera Bread per la bellezza di sette miliardi di dollari.
Come dire che una multinazionale acquisisce marchi nati e cresciuti qui in Italia, toglie lavoro, depreda il

Paese di un’altra delle sue eccellenze e se ne va. Oltretutto, spiegano i tecnici del settore, le norme anti-
delocalizzazione del decreto “dignità” sembra che in questo caso siano inapplicabili.

Il 2 ottobre scorso la regione Piemonte ha aperto un tavolo istituzionale per affrontare il problema con i
sindacati e l’azienda. Ma questa non si è presentata, e anzi ha confermato ufficialmente la sua intenzione
di chiudere attivando la procedura di licenziamento collettivo con la cessazione di tutte le attività
aziendali a partire al 1° gennaio 2019.
Già in quella sede, e successivamente con numerose interrogazioni al ministro per lo sviluppo economico,

sono state poste tre questioni. Intanto: quale sia (se c’è) la strategia del governo in merito al caso Hag-
Spendid, e se e come il Mise intenda intervenire nei riguardi dalla Jde e della Jab Holding. Poi: se il

ministro, al fine di fronteggiare il sempre più frequente mordi-e-fuggi delle multinazionali sul territorio
italiano, intenda adottare iniziative per contrastare l’acquisizione e il trasferimento al’estero delle
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Diritti dell’infanzia, al via la
campagna Cgil

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I numeri dicono che la flat tax non si finanzia da sola
I promotori descrivono la flat tax come un mezzo per rilanciare l’economia, grazie al sostegno fiscale.
Ma i risultati di una stima degli effetti macroeconomici mostrano che la riforma non si autofinanzia. È
quindi necessario trovare le coperture.
di Alberto Caruso e Francesca Mazzolari
Riforma fiscale e crescita economica
La proposta di “quasi flat tax” (con due aliquote e un solo tipo di deduzione), inclusa nel “contratto” di
governo, ha riacceso il dibattito sugli effetti di una riforma dell’Irpef che riduca la pressione fiscale e al
tempo stesso semplifichi il sistema. Le analisi si sono finora concentrate sulla quantificazione della
perdita di gettito e sugli aspetti distributivi (qui; qui e qui). Eppure, si afferma spesso che una riforma di
questo tipo promuoverebbe la crescita, generando così maggiore base imponibile e un potenziale recupero
di gettito.
Sono molteplici i canali attraverso cui l’introduzione di una (quasi) flat tax, associata a una riduzione del
carico fiscale, può aiutare la crescita economica. Nel caso dell’imposta sui redditi personali, quello
principale è l’aumento dei consumi conseguente al maggior reddito disponibile. I consumi rispondono in
modo molto più forte a variazioni delle imposte percepite come permanenti, quindi è importante che
obiettivi e tempi di una riforma siano definiti in modo chiaro, cosicché le modifiche siano considerate
credibili e strutturali. Per un impatto maggiore, il risparmio fiscale dovrebbe essere soprattutto per le
classi di reddito più basse, con propensioni al consumo più elevate.
Gli effetti sull’offerta di lavoro sono incerti e dipendono dal se e quanto una riduzione delle aliquote
marginali induca gli individui a lavorare di più (“effetto sostituzione”), nonostante un “effetto reddito” di
segno opposto, che deriva dalla riduzione delle aliquote medie.
Data la complessità dell’attuale sistema italiano, i benefici economici dovuti alla semplificazione
potrebbero essere ampi: dal lato della pubblica amministrazione, meno costi amministrativi; dal lato dei
contribuenti, meno costi per rispettare le norme. Maggiore trasparenza e minore complessità possono
inoltre aumentare l’osservanza della legge, migliorando l’efficienza del sistema e determinando un
recupero di gettito.
Due simulazioni per l’Italia
Come documentato nel dettaglio in un recente rapporto del Centro studi Confindustria, abbiamo simulato
gli effetti macroeconomici di due schemi alternativi di quasi flat tax. Il primo ricalca la proposta
contenuta nel contratto di governo, mentre il secondo, a parità di perdita di gettito, e sempre con un unico
tipo di deduzione al posto dell’attuale sistema di agevolazioni, deduzioni e detrazioni, è costruito in modo
da ottenere un risparmio fiscale maggiore per le classi di reddito più basse. Per ciascuno schema si
considera l’attuazione immediata (dall’anno successivo) oppure graduale (a regime al quarto anno):
La simulazione 1 prevede due scaglioni (fino a 80 mila euro con aliquota del 15 per cento, oltre con
aliquota del 20 per cento); base imponibile costituita dal reddito familiare; deduzione di 3 mila euro,
moltiplicata per il numero dei componenti della famiglia se il reddito è inferiore a 35 mila euro, per quelli
a carico se è tra 35 e 50 mila euro, zero oltre questa cifra; rimane il bonus “80 euro”; clausola di
salvaguardia. La riduzione di gettito stimata è di quasi 52 miliardi di euro, in linea con precedenti stime di
Massimo Baldini e Leonzio Rizzo e di Prometeia.
La simulazione 2 prevede sempre due scaglioni (fino a 100mila euro con aliquota del 20 per cento, oltre
con aliquota del 40 per cento); deduzione di 10 mila euro, moltiplicata per il numero dei componenti della
famiglia se il reddito è inferiore a 40 mila euro, per quelli a carico se è tra 40 e 60 mila euro, zero oltre
questa cifra; rimane il bonus “80 euro”.
Dato l’aumento stimato (su dati It-Silc) del reddito disponibile per decili, si assume che le famiglie
modifichino il consumo in proporzione alle propensioni medie, calcolate utilizzando i dati dell’indagine
Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane. L’impatto macroeconomico è poi stimato utilizzando il
modello di previsione del Centro studi Confindustria.
I risultati si possono così riassumere:
Nella simulazione 1, con attuazione nel primo anno, i consumi aumenterebbero di circa 35 miliardi
rispetto a uno scenario base senza la riforma. Del risparmio fiscale non consumato, si assume che una
quota, equivalente a 5 miliardi, finanzi nuovi investimenti. Ne deriverebbe una crescita del Pil dello 0,7
per cento più alta nel primo anno, ma la spinta si affievolirebbe negli anni successivi. Il maggior gettito
fiscale derivante dalla spinta al Pil (pur assumendo un recupero dell’evasione pari a 5 miliardi) non
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