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Infolampo: Euro – Privacy

Si può salvare l’euro?
Si riteneva che la moneta unica avrebbe portato prosperità condivisa, favorito l’aumento della
solidarietà assieme all’obiettivo dell’integrazione. In realtà, ha fatto esattamente il contrario,
rallentando la crescita e seminando discordia
di Joseph Stiglitz
Tratto dal numero 4/2018 di Specchio Internazionale. Articolo originale pubblicato su “Project Syndicate”
Per l’euro si sta forse avvicinando una nuova crisi. La terza economia dell’eurozona, l’Italia, ha scelto un
governo che, nella migliore delle ipotesi, può essere definito euro-scettico. Nessuno dovrebbe esserne
sorpreso: la scelta dell’Italia è un altro prevedibile episodio della
lunga saga che ha avuto al suo centro un accordo valutario
abborracciato, in cui la potenza dominante, la Germania, impedisce
le riforme necessarie e, oltre a insistere su politiche che inaspriscono
i rapporti tra i diversi Paesi, usa una retorica che sembra fatta apposta
per infiammare gli animi.
L’Italia non va bene fin dal lancio dell’euro. Il suo Pil reale nel 2016
è stato lo stesso del 2001. Ma è l’eurozona nel suo insieme a non
essere andata bene. Dal 2008 al 2016, il Pil reale è cresciuto solo del
3% in totale. Nel 2000, un anno dopo l’introduzione dell’euro,
l’economia Usa era solo del 13% più grande di quella dell’eurozona.
Nel 2016 è stata più grande del 26%. Dopo una crescita reale intorno
al 2,4% nel 2017 – non sufficiente a invertire il danno di 10 anni di
difficoltà – l’economia dell’eurozona sta di nuovo vacillando.
Se un Paese non va bene, la colpa è del Paese; se molti Paesi non
vanno bene la colpa è del sistema. E come ho scritto sul mio libro “L’euro: come una moneta comune
minaccia il futuro dell’Europa”, l’euro sembra essere stato fatto quasi apposta per fallire. Ha tolto ai
governi i principali meccanismi di aggiustamento (interessi e tassi di cambio) e, anziché creare nuove
istituzioni per aiutare i Paesi a far fronte alle diverse situazioni critiche in cui si trovano, ha imposto
nuove restrizioni – spesso basate su teorie economiche e politiche screditate – sul deficit, il debito e
persino sulle politiche strutturali.
Si riteneva che l’euro avrebbe portato una prosperità condivisa, che avrebbe favorito l’aumento della
solidarietà e portato avanti l’obiettivo dell’integrazione europea. In realtà, ha fatto esattamente il
contrario, rallentando la crescita e seminando discordia. Il problema non è la mancanza di idee su come
andare avanti. Il presidente francese Emmanuel Macron, in due discorsi, lo scorso settembre alla Sorbona
e a maggio quando ha ricevuto il Premio Carlo Magno per l’unità europea, ha delineato una visione chiara
del futuro dell’Europa. Ma la cancelliera Angela Merkel ha di fatto rigettato le sue proposte, suggerendo,
tra le altre cose, somme di denaro ridicolmente modeste per investimenti in aree che ne hanno urgente
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Giorgia Linardi, il lavoro
del soccorso in mare

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Il nemico invisibile della privacy
Un barista si procura una scottatura al lavoro, compra una crema per le ustioni in un negozio e, più
tardi, su Facebook vede una pubblicità di quella crema. Un uomo al supermercato dice al suo amico di
prendere una Red Bull e mentre tornano a casa vedono su Instagram una pubblicità della bibita. Una
cuoca sogna di avere un robot da cucina in casa e poco dopo sul telefono appare una pubblicità del
robot. Due amici parlano del loro ultimo viaggio in Giappone e, di lì a poco, uno dei due vede la
pubblicità di un volo low cost per Tokyo. Sono solo alcune delle strane coincidenze che portano i
consumatori di oggi a sentirsi sorvegliati. A volte è solo una coincidenza, a volte è il frutto di oscuri
interessi. E più questi interessi verranno alla luce, più sentiremo il bisogno di nuove misure normative o
legali.
di Ian Bogost, The Atlantic, Stati Uniti
Ma niente di tutto questo è una novità e la questione non riguarda solo le grandi aziende tecnologiche. Le
tecniche di raccolta dati esistono da anni e i servizi online stanno solo accelerando il loro l’uso. Le
aziende hanno raccolto le nostre informazioni (con o senza il nostro consenso) da datori di lavoro, registri
pubblici, negozi, banche, curriculum e centinaia di altre fonti. Li hanno ricollegati, ricombinati, comprati
e venduti ad aziende, pubblicitari e intermediari. Succede da tempo e succederà ancora. L’era del
nichilismo della privacy è realtà ed è tempo di farci i conti.
Molte persone pensano ancora che il loro smartphone li ascolti in segreto, registrando le conversazioni
per poi passarle furtivamente a Facebook o Google. Facebook in particolare è stata accusata di questa
pratica, probabilmente perché è un’azienda di successo e le sue pubblicità sono facili da individuare.
Facebook ha sempre negato le accuse e secondo i ricercatori la cosa è tecnicamente impossibile. Ma
l’idea rimane.
Rimane perché sembra vera e anche perché in parte lo è. Forse Facebook e Google non ascoltano
letteralmente le nostre conversazioni, ma osservano le nostre vite. Hanno così tanti dati – e su così tante
persone – che è come se stessero monitorando le nostre conversazioni. Siamo in viaggio fuori città in
cerca di un ristorante? Facebook e Google non solo sanno dove siamo, ma anche cosa ci piace mangiare –
se abbiamo messo un like allo stufato coreano o ai pieroghi polacchi – e dai nostri dati demografici
possono intuire il nostro reddito e, di conseguenza, il nostro budget.
Raccolgono i dati in modi inaspettati e spesso scorretti. Lo scandalo Cambridge Analytica ne è un
esempio. Più di recente, un rapporto basato sulle ricerche dell’università Vanderbilt, nel Tennessee, ha
messo in luce che Google impara molte cose sui suoi utenti basandosi sulla loro navigazione web,
sull’uso dei mezzi d’informazione, sulla posizione geografica e sui loro acquisti. Molti dei dati raccolti
riguardano la geolocalizzazione, perché i telefoni Android comunicano la posizione dell’utente più di
trecento volte in ventiquattr’ore, anche se si disattiva la cronologia della localizzazione del dispositivo.
Lo studio ha mostrato inoltre che anche la navigazione in incognito su Chrome permette comunque a
Google di risalire ad alcune informazioni sugli utenti.
Rivelazioni come questa hanno generato delle class action contro l’azienda, e viene voglia d’immaginare
che il controllo, la regolamentazione o le ripercussioni legali potranno cambiare il modo con cui in futuro
i dati saranno raccolti e gestiti.
Per anni le aziende hanno succhiato, comprato e venduto questi dati per migliorare i loro affari. Ma con
l’arrivo delle ultime tecnologie la posta in gioco è cambiata: il furto di dati personali è diventato una
pratica globale. Oggi un gruppetto di nerd sa quello che diciamo, facciamo, sogniamo e desideriamo,
anche le cose che ci vergogniamo di rivelare a noi stessi. Il data brokering (un servizio di intermediazione
tra le fonti d’informazione, come le banche dati, e i clienti interessati a comprarle) un tempo era un
settore oscuro di cui ci si vergognava anche un po’, mentre oggi è la prassi. I giganti della tecnologia non
si vergognano degli imperi che hanno costruito. Anzi, assaporano i guadagni che racimolano dagli avanzi
che lasciamo in giro, e lo fanno apertamente. L’unica cosa peggiore di un bandito è un bandito che non
prova nulla quando saccheggia i nostri segreti.
Da quando è diventato possibile tenere dei registri, le aziende hanno cercato di usare le informazioni che
possiedono a loro vantaggio. L’espressione business intelligence venne coniata per la prima volta nel
1865, da Richard Miller Devens, nel libro Cyclopaedia of commercial and business anecdotes
(Enciclopedia degli aneddoti commerciali e degli affari), un titolo che fa pensare a un uomo con un
cappello a cilindro. Devens aveva studiato la capacità di commercianti e banchieri di fare profitti con
Traduzione di Federico Ferrone.
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