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Infolampo: Def – Futuro

Un Def tecnico e liberista
Duro il giudizio della Cgil nel corso della sua audizione presso le Commissioni speciali di Camera e
Senato. “Nessuna deviazione dal ‘sentiero stretto’ di austerità, flessibilità condizionata e svalutazione
competitiva”. Ripartire dal Piano del lavoro
“Un Documento di economia e finanza apparentemente privo di elementi programmatici. Un documento
tecnico, che si limita alla descrizione dell’evoluzione economico-finanziaria, e che va nella direzione
sbagliata”. Così la Cgil nazionale audita quest’oggi dalle
Commissioni speciali riunite di Camera e Senato sul Def
2018.
Nella memoria consegnata dalla Confederazione, illustrata
dalla segretaria confederale della Cgil Gianna Fracassi, si
sottolinea come “il compito che spetta al nuovo esecutivo
non è semplicemente di scegliere le politiche che
determineranno il nuovo quadro programmatico, bensì di
deviare o meno da quel ‘sentiero stretto’ di austerità,
flessibilità condizionata e svalutazione competitiva
perseguito dal 2010 a oggi, che affida la crescita alle sole
forze di mercato”. Un sentiero che “il Governo uscente
suggerisce di perseguire con politiche di impronta liberista,
senza affrontare il problema dei nodi strutturali del Paese:
riduzione povertà e disuguaglianze sociali e territoriali;
piena e buona occupazione a partire da un Piano
straordinario per la creazione di lavoro e dall’approvazione della Carta dei diritti universali; rafforzamento
della spesa pubblica; lotta all’evasione e sistema fiscale più equo e progressivo, quindi no a flat tax e
condoni; nuova riforma organica del sistema previdenziale che ripristini flessibilità e dia risposte ai
giovani”.
Per la Cgil “occorre rovesciare la prospettiva di gestione dei conti pubblici dando priorità alla crescita e
allo sviluppo”, per questo, in occasione dell’audizione, rilancia il suo Piano del lavoro: “una strategia –
ricorda – di sostegno della domanda attraverso l’incremento di investimenti e redditi da lavoro, quindi
consumi e beni collettivi”. Il Piano “propone di agire attraverso politiche di selezione, attivazione e
qualificazione dell’offerta del sistema economico-produttivo, individuando progetti prioritari con i quali
diffondere innovazione e promuovere lo sviluppo sostenibile e affrontare il nodo delle politiche industriali
attraverso la costituzione di un’Agenzia per lo sviluppo industriale”.
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Infortuni lavoro: Cgil, la strage va
fermata con iniziative concrete

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Il futuro che non ci aspetta
Diminuisce la popolazione, aumentano gli anziani e le politiche lasciano indietro le donne. Quello che ci
preoccupa del nostro futuro demografico
di Roberta Carlini, Annamaria Simonazzi
La recente pubblicazione dell’Istat sul futuro demografico del Paese ha confermato le previsioni sul calo
della popolazione e sul suo invecchiamento “certo e intenso”. L’età media passerà dagli attuali 44,9 a
oltre 50 anni nel 2065. Il calo demografico suscita forti preoccupazioni: riduzione dell’offerta di lavoro e
aumento del rapporto fra popolazione anziana e popolazione in età di lavoro, sostenibilità dei conti
previdenziali e sanitari, forse anche rallentamento della produttività e della crescita.
Già nel 2016 l’Italia aveva il più alto indice di dipendenza degli anziani[1] (34,3%, contro il 29,3 della
media Ue), destinato ad aumentare in linea con i trend di tutti i paesi europei. È una tendenza che riguarda
tutti ma che è particolarmente accentuata per alcuni stati, tra i quali l’Italia, appunto, e la Germania. Ma
l’indice di dipendenza, già in sé allarmante, sottostima la gravità del problema italiano, che è in
condizioni assai peggiori degli altri paesi europei se si guarda al rapporto tra pensionati e lavoratori attivi.
Lo squilibrio occupazionale aggrava quello demografico[2].
Problema che contiene però in sé anche una possibile soluzione, o via d’uscita.
In un recente articolo l’Economist porta argomenti a sostegno di una tesi che si è andata via via
rafforzando negli ambiti della ricerca e dell’analisi delle politiche: l’uguaglianza di genere non è più (o
almeno non solo) un obiettivo desiderabile per ragioni ideali, morali, esistenziali; ma sta diventando una
condizione di sopravvivenza per il sistema economico attuale. È l’ipotesi che si avanzava, parecchi anni
fa, nel libro Questioni di genere, questioni di politica (Carocci, 2006).
Con la grande frattura creata dalla crisi economica, l’accelerazione dell’innovazione tecnologica
(creatrice e distruttrice di benessere e occupazione) e la conferma dei trend demografici, gli anni
successivi hanno rafforzato l’ipotesi, che si sta trasformando in senso comune, senza che tuttavia ne
seguano, purtroppo, concrete conseguenze nelle politiche economiche e sociali. Anche nella recente
campagna elettorale italiana, pur caratterizzata da una base di rifiuto e rivolta contro un establishment
considerato non in grado di risolvere i problemi, e tutta concentrata su proposte alternative tanto
miracolose quanto poco realistiche, nessuno ha messo al centro il lavoro delle donne come leva per il
benessere di tutti.
Torniamo all’Economist, che nota che a differenza della Germania, l’Italia ha una opportunità che deriva
dalla sua stessa arretratezza in termini di lavoro femminile: entrambi i paesi, scrive il settimanale
britannico, devono fronteggiare una severa riduzione della popolazione in età lavorativa, ma “in Italia il
tasso di occupazione femminile è molto indietro rispetto a quello maschile”, cosicché “la popolazione
attiva può avere un balzo in avanti se il gap si chiude rapidamente, e se tutti lavorano di più e
acquisiscono più avanzati titoli di studio”. Il lavoro delle donne ci può far uscire dalla trappola
demografica; e in questo percorso l’Italia può far molto meglio della Germania.
Quali politiche
Ma anche se – almeno a parole – sull’obiettivo di aumentare l’occupazione tutti concordano, non c’è
sufficiente enfasi, nel dibattito di politica economica, sulle politiche necessarie per attuarlo.
L’Economist ne elenca alcune: nelle politiche pubbliche, le forme che incentivano le donne a svolgere
lavoro retribuito e le mantengono sul mercato del lavoro (dunque, permessi genitoriali più generosi e
paritari, aumento della spesa in servizi sociali ed istruzione per la prima infanzia, servizi sociali e sanitari
per la cura degli anziani); nel settore privato, il cambiamento di mentalità e organizzazione delle imprese,
sia per agevolare la conciliazione vita-lavoro che per adeguarsi a una forza lavoro sempre più anziana.
L’aumento dell’età pensionabile, mantra e centro del dibattito di questi anni, da un lato è una tendenza
inevitabile per la sostenibilità finanziaria dei sistemi pensionistici; dall’altro si è rivelato un problema, e
ha nutrito disagio e proteste sociali che si sono visti anche nel voto recente in Italia, per la mancanza di
spazio all’ingresso di giovani, il blocco del ricambio generazionale (tanto più negativo in tempi di veloce
transizione tecnologica), il mancato adeguamento dei posti di lavoro all’invecchiamento degli occupati.
Negli ultimi anni in Italia, in virtù della segmentazione del mercato del lavoro e dell’aumento dell’età
pensionabile delle donne, l’occupazione femminile ha tenuto, come “in difesa”: si tratta di farne invece
una componente dell’attacco, ossia della strategia per uscire dalla crisi e fronteggiare lo shock
demografico che già ci ha investito e ancor più ci investirà. E per farlo è necessaria una doppia politica,
che incida sulla domanda come sull’offerta. Le politiche volte ad aumentare l’offerta di lavoro, dei
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