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infolampo: centrostorico – mezzogiorno

Ascoli Piceno. “Non facciamo morire il centro storico”
A chi abita nella grande città ma è nato in una piccola cittadina della provincia italiana, capita spesso di
tornare nei luoghi delle origini e non avere più punti di riferimento. Non è solo il tempo che passa e i
cambiamenti che sopraggiungono, è anche un senso di vuoto, di frammentarietà, di assenza. Sono i centri
storici italiani che muoiono, piano piano, sotto molteplici spinte: i negozi chiudono, le macchine
invadono le antiche piazze, gli anziani si muovono sempre più a fatica, il cuore pulsante si sposta altrove,
magari vicino a un centro commerciale nuovo di zecca.
È accaduto anche ad Ascoli Piceno dove il sindacato dei pensionati della Cgil si è fatto promotore di una
proposta per rendere più vivibile e accessibile il centro storico
della città marchigiana. Qui gli anziani sono tanti: tremila su
diecimila abitanti. Sono soli e hanno sempre più difficoltà.
Spesso non sanno nemmeno dove comprare il latte e il pane:
gli storici negozi, che hanno animato da decenni la città, ora
chiudono sotto il peso degli affitti alti e della concorrenza
degli ipermercati appena fuori le mura.
“Qui ad Ascoli Piceno”, ci racconta il segretario generale
dello Spi Cgil Giancarlo Collina, “il nuovo quartiere di
Monticello, costruito dopo il terremoto del 1972, è diventato
il nuovo centro cittadino. Ma il cuore antico è abbandonato a
se stesso”.
Per questo lo Spi ha immaginato un nuovo progetto per
ripopolare la città. E lo ha fatto pensando anche a come attrarre giovani: studenti che possano arrivare ad
Ascoli Piceno per studiare architettura. “Bisogna rilanciare la facoltà (che fa parte dell’Università di
Camerino, ndr) ed aprirci anche all’estero”, dice Collina. “Per noi sarebbe fondamentale e utilissimo
aprire le porte a studenti stranieri”.
Già, gli studenti. Potrebbero ripopolare il centro cittadino e dare una sterzata al forte invecchiamento della
popolazione. E gli anziani a loro volta potrebbero diventare una risorsa e uno stimolo per i giovani. La
Facoltà di Architettura potrebbe entrare in gioco anche prima, proprio per aiutare l’amministrazione
comunale a elaborare un nuovo progetto di rilancio e sviluppo della città.
“Servono idee, servono progetti ma, soprattutto, serve una precisa volontà da parte delle istituzioni”.
Collina ci racconta che è difficile farsi sentire ma che loro andranno avanti. Credono nella necessità di
frenare questo lento declino che purtroppo accomuna Ascoli Piceno a tanti altri centri medio-piccoli della
nostra Italia dai mille campanili.
Insomma, si tratta di ridisegnare una città che può offrire nuove opportunità di lavoro ai giovani a partire
proprio dai temi legati alla salute o all’invecchiamento attivo. E poi c’è tutta la partita legata alla messa in
sicurezza degli edifici. Bisognerebbe verificare il patrimonio abitativo pubblico e privato e ricavare dei
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Sanità: Cgil, rilanciare SSN
pubblico e universale

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La contrattazione decentralizzata e lo sviluppo del
Mezzogiorno
Lo scorso 10 aprile il Centro di Ricerche Economiche e Sociali Rossi-Doria dell’Università di Roma3 ha
organizzato un interessante workshop su “Contrattazione collettiva, mercato del lavoro, produttività”.
Scritto da: FraGRa
Al di là dello specifico contenuto dei lavori discussi, l’attenzione è tornata nuovamente sull’annosa
questione dei differenziali di salario reale fra Nord e Sud Italia. In breve, la tesi emersa nel workshop,
soprattutto sulla base del lavoro di Boeri, Ichino, Moretti e Posch lì presentato, è che la contrattazione
collettiva nazionale, fissando i salari nominali in modo uniforme sul territorio nazionale, genererebbe un
vantaggio salariale in termini reali nel Mezzogiorno a causa del maggior costo della vita, soprattutto delle
abitazioni, nel Settentrione. Tale vantaggio sarebbe iniquo, dato che penalizzerebbe i lavoratori del Nord,
e inefficiente, scoraggiando gli investimenti e favorendo la disoccupazione al Sud, e andrebbe eliminato
sostituendo a quella nazionale una contrattazione il più possibile decentrata (fino al livello di impresa).
Alla luce questa discussione, è utile ripresentare, con alcune estensioni, un nostro contributo già
pubblicato sul Menabò.
Prescindiamo dalle difficoltà tecniche connesse alla trasformazione dei valori nominali in valori reali (ad
esempio, il problema del deflatore da utilizzare per valutare il diverso costo delle abitazioni e il suo
impatto sul costo della vita complessivo) e ci concentriamo, invece, sulle implicazioni per l’efficienza e
l’equità dell’auspicato livellamento dei salari reali a livello nazionale.
Prima di procedere è, però, utile verificare se i salari nominali tra le aree del paese siano effettivamente
uniformi. Il fatto che la contrattazione di primo livello sia condotta a livello nazionale non esclude, infatti,
che le retribuzioni effettivamente percepite possano differire nelle diverse aree, in ragione di fattori quali:
il numero di settimane e di ore effettivamente lavorate (legate anche al numero di ore di straordinario), la
presenza di mensilità aggiuntive e eventuali bonus e la diffusione o meno di contrattazione di secondo
livello, che può prevedere incrementi salariali. Solitamente questi fattori, anche a causa del minor
sviluppo economico, sfavoriscono i lavoratori del Mezzogiorno, generando divari nelle retribuzioni
effettivamente ricevute.
La nostra verifica si basa su un campione di dati amministrativi dell’INPS relativo al 2013 e si riferisce ai
divari delle retribuzioni lorde annue complessive (che includono anche straordinari, tredicesime ed
eventuali quattordicesime) dei lavoratori dipendenti del settore privato residenti nelle diverse macro-aree
del nostro territorio. Ci siamo limitati a considerare chi nell’intero anno è stato occupato full-time (così
depurando l’analisi da eventuali differenze dovute a rischi di disoccupazione e di part-time involontario,
ben più frequenti nel Mezzogiorno).
La figura 1 mostra i divari dei salari lordi mediani fra aree e segnala che la retribuzione annua effettiva
del Mezzogiorno è inferiore di circa 20 punti a quella del Nord Ovest e di circa 15 punti a quella del Nord
Est.
La differenza delle retribuzioni mediane potrebbe essere dovuta a differenti caratteristiche dei lavoratori e
delle imprese residenti nelle macro-aree. Per tenere conto di questo aspetto, abbiamo ricalcolato i
differenziali retributivi fra macro-aree mediante regressioni sui logaritmi delle retribuzioni lorde annue
percepite dai dipendenti privati occupati full-time per l’intero 2013, controllando per una serie di
caratteristiche individuali (sesso, età ed esperienza lavorativa, cittadinanza, istruzione e inquadramento
professionale; pannello sinistro della Figura 2) e poi aggiungendovi le caratteristiche dell’impresa
(dimensione e settore, espresso tramite la dettagliatissima classificazione Ateco a 6 livelli; pannello destro
della Figura 2). Anche controllando per questi “effetti di composizione” il divario territoriale stimato
rimane ampio e statisticamente significativo e porta a escludere che la contrattazione nazionale generi
eguaglianza delle retribuzioni nominali indipendentemente dalle condizioni di contesto.
Questa differenziazione fa anche sorgere una domanda rilevante per le questioni di equità e efficienza di
cui stiamo per occuparci e a cui non è facile rispondere: le complessive dinamiche economiche, incluse
quelle che si esplicano nei mercati, non potrebbero condurre a una configurazione dei salari che
approssima le condizioni di equità e efficienza più di quanto non risulti in base all’assunzione che i salari
siano uniformi a livello nazionale? Chiediamoci allora cosa implichi rispetto all’equità e all’efficienza
l’auspicato livellamento dei salari reali.
Iniziamo con l’equità: a prima vista la tesi che a parità di condizioni individuali (in primis anzianità,
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