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Infolampo: Denatalità – lavoretti

Perché siamo sempre meno
Anche i numeri parlano: prosegue il calo demografico dell’Italia, con il minimo storico delle nascite.
Fotografia di un Paese che si è fermato. E soffre, in assenza interventi strutturali per il lavoro e la vita
delle persone, donne e anziani innanzitutto
di Silvia Garambois
E siamo sempre meno: 60 milioni e 494mila, mancano all’appello quasi centomila italiani rispetto a un
anno fa. Fatti i conti, infatti, l’Istat ha annunciato che nel 2017 sono nati 464mila bambini, cioè il 2% in
meno rispetto al 2016 (nuovo record di minimo storico dall’Unità d’Italia) e che sono morte 647mila
persone (cioè quasi come nel 2015, quando furono
653mila e si disse che erano “tanti come in una guerra”).
Poiché anche i numeri sanno raccontare storie, questa
fotografia dell’Italia che si prepara al voto è quella di un
Paese che soffre. Che non ce la fa.
Viene da domandarsi perché, solo qualche mese fa, erano
state suonate le campane a festa quando si era registrato
un aumento dei matrimoni, e quindi all’Istat aspettavano
anche le nascite, come se fosse una conseguenza
incontrovertibile. Macché, non è andata così. Così ora
ripetono che è colpa delle donne che “hanno scarsa
propensione alla maternità”. O non è forse che i giovani –
categoria che ormai abbraccia ampiamente i trentenni –
magari si sposano anche di più, ma prima di pensare ai
bambini continuano a dover far di conto prima di tutto con
il lavoro? Se è precario è un guaio, se non è precario ma
non ci sono asili o almeno nonni, è un altro guaio.
Viene da domandarsi perché ci avevano spiegato, in un mucchio di modi dotti, che tanti morti come nel
2015 mai più: non era cambiata l’aspettativa di vita, erano solo una serie di casualità. Così, di fatto,
veniva zittito chi metteva insieme alle notizie dei lutti anche quelle sul calo delle cure da parte di tanti,
perché le medicine costano care, perché i dottori costano cari.
E ora, che ci risiamo, l’Istat come prima cosa avverte: non cambia l’aspettativa di vita, 80,6 anni per gli
uomini e 84,9 anni per le donne. Insomma: non illudetevi, non cambia neppure l’età per la pensione.
La differenza è che stavolta il “crac” delle nascite e il “boom” delle morti sono stati dati un po’ in sordina,
forse è difficile sfoderare ancora ottimismo raccontandoci che abbiamo letto male i numeri. È anche per
questo che le promesse elettorali di soldi a pioggia sono tristissime: di fronte a un Paese che si è fermato
la politica non propone interventi strutturali che riguardano il lavoro e la vita delle persone, ma annuncia
elargizioni giusto per tirare avanti un altro po’. Soldi per i figli che nascono, per i figli che si diplomano,
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Canone Rai, chi è esentato dal
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Lavoretti
Con la tecnologia, contro la retorica. Vorrei chiarirlo subito, non sono contro la tecnologia. Sono
innamorato della tecnologia, da sempre. Sono contro la retorica, contro lo spettacolino di son et
lumière che le hanno allestito intorno i banalizzatori della «distruzione creatrice», contro i pubblicitari
che hanno tirato a lucido gli slogan e i giornalisti che si sono precipitati a testimoniare nella causa di
beatificazione, contro i lobbisti che ne hanno venduto una rispettabilità istituzionale e i politici che
l’hanno comprata senza fare una piega.
di Riccardo Staglianò
In buona sostanza è la lunga denuncia di una pericolosa impostura linguistica, quella che sta provando a
farci credere che «sharing economy» si traduca davvero con «economia della condivisione», con tutto il
bene che ne deriverebbe. Un nuovo capitalismo, quello delle piattaforme, tanto generoso e altruista
quanto il vecchio, che abbiamo conosciuto fino a oggi, era spietato ed egoista. La sharing economy
invece, sotto i brillantini della narrazione prevalente, presenta solo vantaggi. Economicamente efficiente.
Ambientalmente rispettosa. Socialmente giusta. Chi la critica dunque non può che essere una brutta
persona. Peccato che, a dispetto dei termini, piú che condividere, la gig economy – cominciamo a
chiamare le cose per quel che sono: economia dei lavoretti – concentri il grosso dei guadagni nelle mani
di pochi, lasciando alle moltitudini di chi li svolge giusto le briciole. Share the scraps economy, l’ha
ribattezzata Robert Reich. Chi possiede la piattaforma estrae, secondo una modalità neofeudale, una
commissione da chi svolge la prestazione. Cosí il vassallo Travis Kalanick in un lustro passa da zero a
sette miliardi di ricchezza personale mentre sempre piú autisti di Uber, dopo l’ennesima decurtazione alle
tariffe, dormono nei parcheggi zona aeroporto di San Francisco per essere i primi ad aggiudicarsi le corse
buone. Come in ogni casinò che si rispetti, il banco vince sempre.
Il mondo si muove, noi che vogliamo fare? Decostruendo questa narrazione provo a dare un messaggio di
speranza. Nel resto del mondo, infatti, il volume di questo dibattito si sta alzando. Non solo gli
intellettuali hanno denunciato l’ipocrisia di certi racconti, ma i sindacati hanno pagato le spese per le
cause e i tribunali hanno dato loro ragione. Alcuni imprenditori, ancor prima che un giudice intervenisse,
hanno quindi deciso di cambiare l’inquadramento dei propri lavoratori da autonomi a dipendenti. Con
tutti i diritti del caso. Addirittura avversari politici come Theresa May e Jeremy Corbyn si sono quasi
riconciliati sul punto specifico. Non è questione di destra o sinistra, ma della tenuta dello stato sociale.
Perché se i padroni delle piattaforme sono campioni olimpici di elusione fiscale e finiscono per pagare
tasse da prefisso telefonico grazie a qualche sapiente triangolazione, il welfare a un certo punto non
reggerà. Giusto nel nostro Paese questa preoccupazione sembra non rilevare, superata in scioltezza da un
entusiasmo adolescenziale per tutto ciò che viene dalla Silicon Valley. Eppure nessuno come noi in
Europa ha tanti giovani disoccupati e precari di ognietà. Siamo davvero pronti a riscrivere l’articolo 1
della Costituzione in un piú sincero, ma scoraggiante: «L’Italia è un Paese fondato sul lavoretto»?
Preferirei di no. E allora prendete queste pagine come una sveglia il cui tempo è scaduto. Una con quei
trilli molesti che crescono di intensità col passare dei minuti. Fra le tante possibili reazioni c’è anche
voltarsi dall’altra parte e rimettersi a dormire con il cuscino pigiato sulle orecchie, ma non mi sembra la
piú risolutiva. Magari sbaglio.
Prima obiezione: la tecnologia ha sempre sostituito i lavoratori, eppure… Piccolo passo indietro. Poco
meno di due anni fa ho scritto, per questa casa editrice, un libro su come web e robot ci stanno rubando il
lavoro. Da allora sono stato invitato a molte presentazioni, convegni, festival. Le obiezioni che ho
ricevuto rientrano a spanne in due grandi categorie. Numero uno: la tecnologia ci ruba lavoro dalla prima
rivoluzione industriale, eppure siamo ancora qui a mangiare, bere e divertirci. Numero due: e poi, a
guardare bene, di che furto parli se negli Stati Uniti siamo alla piena occupazione? Della prima mi sono
diffusamente occupato nelle oltre 250 pagine di Al posto tuo e non mi ripeterò. Dirò soltanto, in un
riassunto temerario, che la novità sta nella somma del machine learning, una tecnica che negli ultimi anni
ha fatto formidabili progressi e che consente al software di imparare da se stesso, con i big data, una
quantità di informazioni senza precedenti generate da ogni nostra attività digitale. Grazie a questo
combinato disposto Google Translate, tanto per fare un esempio, è passato da un livello ridicolo a uno
sorprendentemente accurato dopo aver ingurgitato miliardi di pagine di traduzioni fatte dai traduttori
ufficiali dell’Unione Europea. Nelle ultime settimane la rassegna di esempi di sostituzione si è allungata a
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