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Infolampo: in piazza – pensioni

Cgil in piazza anche per i diritti di giovani e donne
Colla a RadioArticolo1: “Dobbiamo riprendere la discussione sul sistema pensionistico, che s’incrocia
con il tema del lavoro, dando risposte alle figure più deboli che rischiano di essere espulse dal sistema
produttivo senza tutele e senza pensione”
“Essere in piazza sabato 2 dicembre vuol dire riprendere la discussione sul sistema pensionistico, che
s’incrocia con il tema del lavoro, dando risposte alle figure
più deboli, come le donne e i giovani, che rischiano di
essere espulse dal sistema produttivo senza tutele e senza
pensione”. Così Vincenzo Colla, segretario confederale
Cgil, oggi ai microfoni di Italia parla, la rubrica di
RadioArticolo1.
“La nostra mobilitazione si è resa inevitabile, dal momento
che il governo ha disatteso gli accordi raggiunti con noi,
assieme a Cisl e Uil, nel settembre 2016 al tavolo
negoziale, quando si era avviato un confronto sulle
pensioni. Si è discusso per mesi, ma al momento di
trasformare le parole in numeri e risorse, l’impegno
dell’esecutivo è venuto meno e la soluzione trovata sull’età
pensionabile lascia davvero l’amaro in bocca”, spiega.
“Nelle assemblee e negli incontri che abbiamo fatto in
questi giorni con i lavoratori, ci siamo sentiti ripetere:
‘Fermatevi! Non può essere che l’età pensionabile si alzi
ancora, è già l’età più alta in Europa e noi non ce la facciamo più a lavorare così a lungo. Stessa cosa sta
avvenendo sul mercato del lavoro, dove abbiamo una crescita esponenziale di lavoratori dai 50 ai 65 anni
che non reggono più, nè fisicamente né psicologicamente. Di contro, vi è un travaso in negativo di
giovani dai 25 ai 35 anni, che lavorano in modo sempre più precario e discontinuo, e in tanti preferiscono
andarsene all’estero. Ma come si può pensare che il sistema regga, se le due ruote, quella pensionistica e
quella lavorativa, non girano più?”, si chiede il sindacalista.
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Dalle Marche oltre mille tra
lavoratori, lavoratrici e pensionati

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La ‘bomba sociale’ delle pensioni
Continuare a dire, come i governi degli ultimi 20 hanno fatto, che i nostri conti pubblici non ci
consentono di disinnescare la “bomba sociale” innescata dalle riforme del sistema pensionistico è un
errore. Ecco perché
di Felice Roberto Pizzuti
Oramai da molti anni, nel nostro sistema previdenziale sta maturando una vera e propria “bomba sociale”.
Nel suo assetto attuale, le giovani generazioni che oggi molto faticano ad entrare nel mondo del lavoro e
anche i tanti quarantenni oppressi da rapporti lavorativi precari e remunerazioni scarse avranno una
copertura pensionistica del tutto inadeguata. Questa tendenza prefigura un aggravamento delle prospettive
economiche e una pericolosa incrinatura del patto intergenerazionale che molto contribuisce a sostenere la
coesione sociale di qualsiasi società. La politica economica e la politica tout court stanno insistendo in
scelte contrarie al benessere economico e sociale del nostro Paese e non si può continuare a rapportarsi
alla “questione previdenziale” come fosse un problema congiunturale.
Le consistenti riforme della prima metà degli anni ’90 furono più che sufficienti a recuperare le pur gravi
storture e gli squilibri finanziari che si erano accumulati negli anni precedenti; già nel 1996 e poi
ininterrottamente dal 1998, il saldo annuale tra le entrate contributive e le prestazioni previdenziali al
netto delle ritenute fiscali sono tornate in attivo; nel 2008, raggiunsero 33 miliardi (2% del Pil) e
nell’ultimo anno di cui si ha il dato, il 2015, è stato di 26 miliardi (1,7% del Pil). Le previsioni dicono che
almeno nel prossimo decennio, nonostante l’invecchiamento della popolazione, il rapporto tra la spesa
pensionistica pubblica e il Pil sia in calo. Ciò significa che un maggior numero di anziani riceverà una
fetta del reddito corrente più piccola; il valore medio delle pensioni diminuirà rispetto a quello del salario
medio (e del Pil pro capite), scendendo da circa il 45% attuale a circa il 32% nel 2035. La scelta
economico-sociale fatta e confermata è quella di ridurre la partecipazione degli anziani alla distribuzione
del reddito, il che riguarderà in misura crescente le generazioni che oggi arrancano nel mondo del lavoro
e che tutti dicono di voler aiutare. Il forte e crescente aumento dell’età di pensionamento deciso con la
riforma Fornero – aggravato dal suo incongruo adeguamento automatico alla vita media attesa che la
porterà a 67 anni dal 2019 – in un contesto di elevata disoccupazione, in particolare di quella giovanile,
rappresenta un contro senso sociale ed economico; il quale viene ignorato in nome di interessi, di una
visione puramente finanziaria e di una concezione economica che sono alla base della Grande Recessione
iniziata nel 2007-2008 e che stanno ostacolando la possibilità di uscirne. Continuare a dire, come i
governi di questi ultimi vent’anni hanno fatto, che i nostri conti pubblici non ci consento di disinnescare
la “bomba sociale” che già molto è maturata, significa incorrere in una grave serie di errori.
In primo luogo, come si è ricordato, da circa un ventennio il sistema pensionistico sta già
consistentemente contribuendo al complessivo bilancio pubblico, in una misura che mette a rischio la
coesione sociale attuale e futura tra la popolazione attiva e quella a riposo. Costringere al lavoro chi già
pensava che avrebbe potuto smettere e contestualmente ostacolare l’ingresso dei giovani nel mondo del
lavoro non solo genera frustrazioni individuali contrapposte che gravano sugli equilibri sociali, ma
peggiora la dinamica della produttività, le possibilità di innovare i processi produttivi, la capacità
competitiva del nostro sistema produttivo e la crescita strutturale del reddito. Da molti anni l’Unione
europea non ci invia più raccomandazioni di intervenire sul nostro sistema pensionistico; anzi ci fa
presente che spendiamo poco per l’istruzione e le misure di sostegno al reddito. Purtroppo, nonostante
sarebbe estremamente necessaria una politica di rilancio della crescita guidata proprio dall’Unione
europea, Bruxelles ci spinge con forza a politiche fiscali restrittive (la “austerità”), ma la scelta di farlo
agendo proprio sulle pensioni, con i suoi effetti sociali e distributivi, è fatta dai nostri governi; i quali
dunque, non solo non resistono a quelle spinte controproducenti, ma le attuano nel modo peggiore e, in
più, bruciano le scarse possibilità rimanenti al bilancio pubblico finanziando politiche costose e inefficaci
come il Jobs Act che inseguono ancora la chimera di aumentare la competitività riducendo il costo del
lavoro e aumentando l’instabilità sociale ed economica. Magari poi si fa la voce grossa, ma solo a parole,
contro i vincoli posti dall’Unione, accrescendo il risentimento contro la costruzione europea la quale di
problemi ne ha già molti di suo per come viene erroneamente perseguita, ma che, invece, andrebbe
curvata verso politiche favorevoli alla crescita economico-sociale e di contrasto alla precarietà e alle
diseguaglianze. In questa fase storica occorrerebbe essere anche molto audaci, in ogni campo, ma per fare
qualcosa di… progressivo (che poi, almeno un tempo, era il compito della Sinistra) e non per rotolarsi nei
luoghi comuni alimentati da interessi sempre più ristretti e retrivi.
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