Da Infolampo: Più Internet tra i 60enni – Sharing economy
Internet: cresce l’utilizzo tra i 60-64 enni, ma quasi una
famiglia su tre non può accedervi
Cosa significa finire in fondo alla classifica europea per la diffusione della banda larga? A spiegarlo è il
rapporto Istat su Cittadini, imprese e Ict (Infomation Comunication Tecnology) anno 2016 : su cento
famiglie italiane, ad esempio, 33 non hanno accesso a Internet da casa.
Una delle poche note positive riguarda la crescita
significativa, circa sei punti di percentuale, nell’uso di
internet tra i 60-64 anni. Questa fascia di età passa dal 45, 9
per cento al 52, 2 per cento, grazie soprattutto all’incremento
della presenza delle donne (più 8,7 punti percentuali).
Cosa significa finire in fondo alla classifica europea per la
diffusione della banda larga? A spiegarlo è il rapporto Istat su
Cittadini, imprese e Ict (Infomation Comunication
Tecnology) anno 2016 : su cento famiglie italiane, ad
esempio, 33 non hanno accesso a Internet da casa e ciò si
traduce, non solo nell’impossibilità di usufruire di
informazioni e accesso ai social network ma anche ai servizi
erogati solo online dalla pubblica amministrazione. Un
quadro a tinte scure quello disegnato dall’Istituto di ricerche
statistiche, in cui una delle poche note positive riguarda la
crescita significativa, circa sei punti di percentuale, nell’uso
di internet tra i 60-64 anni. Questa fascia di età passa dal 45, 9
per cento al 52, 2 per cento, grazie soprattutto all’ aumento
nell’accesso a Internet da parte delle donne (più 8,7 punti
percentuali).
In generale, le differenze tra uomini e donne restano forti ma
si riducono nel tempo: il gap a favore degli uomini era di 11
punti percentuali nel 2010, di 9,2 nel 2015 e di 8,6 nel 2016.
Tali differenze si rilevano soprattutto dopo i 44 anni, mentre
si annullano tra i più giovani (11-17 anni).
Nel 2016 la stima della quota di famiglie che accedono a Internet mediante banda larga, con una
preferenza per la connessione fissa (ADSL, Fibra ottica, ecc.) sale al 67,4% dal 64,4% del 2015. È invece
stabile intorno al 98% la quota di imprese con almeno 10 addetti che utilizzano Internet mentre quelle che
si connettono in banda larga mobile passano dal 63,3 al 63,8% (60,0% nel 2014).
Il 63,2% delle persone di 6 anni e più si è connesso alla Rete negli ultimi 12 mesi (60,2% nel 2015)
Leggi tutto: http://www.libereta.it/internet-cresce-lutilizzo-i-60-64-enni-famiglia-non-puo-accedervi.html
Carta dei diritti: i referendum e
la proposta di legge
Referendum lavoro: Stupita del
loro stupore. Parla S. Camusso
Al lavoro, alla lotta, al voto. Parla
N.Baseotto
Scheda su ammissibilità dei
referendum a cura dell’ufficio
giuridico Cgil nazionale
VIDEO
Materiali grafici
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Sharing economy, quando a prevalere sono i «lavoretti»
Un modello dove le prestazioni stabili sono azzerate e di conseguenza i contratti a tempo indeterminato
non sono praticamente contemplati, mentre l’offerta di attività, prodotti o servizi, avviene solo “on
demand”
di Jacopo Formaioni
Cresce ancora la sharing economy, con un numero sempre più alto di settori interessati: dal turismo al
welfare, dalla finanza ai trasporti, alla cultura, passando per casa, scienza e lavoro. È vivace e dinamica,
ma ancora fragile. Questo il quadro che emerge dall’annuale rapporto di Sharitaly: 8 milioni di italiani ne
sono coinvolti, ma sono più del doppio quelli che dichiarano di avere usato almeno una volta un servizio
all’insegna del “consumo collaborativo”.
Il 2016 è stato l’anno dell’invasione di campo nel panorama del lavoro delle attività e delle piattaforme di
sharing. Con l’apertura dei primi conflitti, come i casi Uber e Foodora, e sollevando i primi interrogativi:
quanto questo modello economico sta modificando il modo di intendere i rapporti di impiego e la
relazione tra chi richiede un servizio e chi lo fornisce? Secondo Marta Mainieri (Collaboriamo) e Ivana
Pais (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano), curatrici di Sharitaly, oggi è sempre più importante
stabilire i confini tra quello che rientra davvero nella categoria della sharing economy e quello che invece
non può starci.
Di economia collaborativa si può parlare, dicono le due studiose, quando siamo di fronte a piattaforme
davvero “peer-to-peer”, che permettono direttamente lo scambio o la condivisione di beni, oggetti,
denaro, spazi tra persone, abilitando e non erogando servizi e transazioni attraverso un sistema
reputazionale, non stabiliendo un prezzo e non selezionando personale. Altrimenti, se la piattaforma
controlla l’erogazione e stabilisce le regole, sostituendo all’abilitazione il controllo del servizio, bisogna
parlare di economia “gig”(lavoretto) o “on demand”.
In Italia ci sono 138 piattaforme di sharing e 68 di crowdfounding, per un totale di 206, suddivise in 12
settori, con un aumento del 10% sul 2015. Accanto alla crescita, va tuttavia considerato per la prima volta
anche un fenomeno di mortalità abbastanza alto: delle 187 piattaforme attive nel 2015, 13 risultano
inattive, ben l’11% . I servizi alla persona e quelli alle imprese, categorie in cui si collocano anche le
attività che comprendono il lavoro e i cosiddetti “lavoretti”, arrivate al 16% e all’8,7%, sono tra i settori
che crescono di più, insieme ai trasporti (18%) e alla cultura (9,4 %), con il turismo che resta invece
stabile al 12%.
L’82% dei fondatori delle piattaforme è composto da uomini, per di più non giovanissimi, visto che l’età
media è di 39 anni. I laureati sono il 76%, mentre il 39 % proviene da altre iniziative imprenditoriali (che
ha creato o gestito). In media, se si escludono le tre maggiori realtà di sharing, che occupano oltre 15
persone, in una piattaforma tipica si lavora in sei. Non solo. Le piattaforme collaborative italiane sono
anche povere di relazioni con altri soggetti, dalla ricerca all’università, agli enti pubblici o alle
associazioni di categoria o non profit.
Persino con le altre piattaforme i rapporti sono scarsi, ma non con gli utenti. Nel 2015 il 20% delle
piattaforme sharing raggiungeva più di 30 mila utenti, ora sono il 31%. E anche sul lato della domanda ci
sono ancora larghi margini di crescita e di distribuzione, visto che il 51% delle piattaforme di sharing ha
un numero di utenti inferiore ai 5 mila, mentre l’11% ne concentra già oltre 100 mila.
Gig economy
La sharing economy è un modello economico, ma prima di tutto uno stile di vita ben preciso. E diverso da
un semplice strumento finalizzato a rimediare del lavoro, seppure in modo innovativo. Per capirlo basta
mettere a confronto due piattaforme come Bla Bla Car e Uber: nel primo caso, l’automobilista pianifica
un tragitto e, per contenere le spese, mette a reddito i posti liberi, condividendo spese e riducendo
l’impatto ambientale; l’autista di Uber si sposta su chiamata, come un taxista, creandosi un lavoro.
Quando parliamo di piattaforme come Uber, Foodora o Deliveroo, ci riferiamo quindi a un modello del
tutto particolare, parliamo di gig economy.
Caporalato digitale
Uno dei sistemi di impiego più contradditori degli ultimi anni, che affonda le sue radici già nell’America
degli anni sessanta, quando veniva chiamata “lavoro periferico”.Un modello dove le prestazioni
lavorative stabili sono azzerate e, di conseguenza, gli impiegati e i dipendenti a tempo indeterminato
praticamente non sono contemplati. Dove non esistono più posti di lavoro – né a tempo determinato, né
indeterminato – e l’offerta di prestazioni lavorative, prodotti o servizi, avviene solo on demand, quando
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