Da infolampo: Donne – Riforma
Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, ma
sono gli uomini a dover cambiare
Alla vigilia della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne che si tiene il 25 novembre,
all’Assemblea delle donne Spi Cgil, che si è chiusa ieri a Verona, sul tema sono intervenuti Stefano
Ciccone, associazione Maschile Plurale e Imma Tromba, associazione D.i.Re Donne in Rete contro la
violenza / associazione GOAP.
Alla vigilia della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne che si tiene il 25 novembre,
all’Assemblea delle donne Spi Cgil, che si è chiusa ieri a
Verona, sul tema sono intervenuti, Stefano Ciccone,
associazione Maschile Plurale (nata nel 2007, rappresenta una
realtà di uomini impegnati da anni in riflessioni e pratiche di
ridefinizione della identità maschile, plurale e critica verso il
modello patriarcale, anche in relazione positiva con il
movimento delle donne, ndr.) e Imma Tromba, associazione
D.i.Re Donne in Rete contro la violenza / associazione
GOAP.
“La violenza sulle donne chiama in causa noi uomini”,
afferma Ciccone, “perché è parte profonda della nostra
cultura”. E non si tratta di un’emergenza, racconta il
rappresentante dell’Associazione maschile plurale, quanto “di
un fatto strutturale legato a una cultura condivisa e a
comportamenti consolidati”. Un fenomeno complesso che
non è possibile pensare di risolvere solo con l’intervento delle
forze dell’ordine o mettendo in campo risorse straordinarie.
Non basterebbe neanche l’aumento delle pene. Per Ciccone”
siamo di fronte a un fenomeno complesso” e tutto serve, tranne le risposte semplicistiche.
Per affrontare una realtà sociale tanto odiosa quanto diffusa, occorre una pluralità di risposte articolate,
costanti e complesse. Quando un uomo picchia una donna, o la uccide, non siamo di fronte a una
patologia, un fattore eccezionale. Quell’atto è un linguaggio che esprime un modello di virilità, spiega
Ciccone. Esiste la banalità del male ed esiste quella che Ciccone chiama “la normalità della violenza”.
Di fronte alla platea femminile, fatta di delegate sindacali, con storie legate ai movimenti femministi degli
anni ’50, ’60 e ’70, consapevoli della posta in palio e, soprattutto della estrema difficoltà e lentezza del
processo di cambiamento di identità culturale da parte degli uomini, l’esponente dell’associazione Plurale
Maschile riconosce al sindacato “un grande ruolo come rete sociale, vicina alla vita delle persone, alle
realtà familiari, dove la violenza spesso si annida, così come anche nella disparità tra uomo e donne
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per uscire dalla violenza
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Con questa riforma prigionieri della Ue
Negli articoli che trattano dell’appartenenza all’Unione e della formazione delle leggi non c’è – come è
stato detto – un cambio puramente formale. Se vincerà il SI al referendum la sovranità italiana sarà
esplicitamente vincolata ad autolimitarsi attraverso l’adesione alla Ue, divenuto un obbligo
costituzionalizzato
di Massimo D’Antoni
C’è un tema di merito che sta passando relativamente sotto silenzio, ma che potrebbe essere una delle
ragioni più forti per votare No. Un tema che evidenzia una contraddizione tra i contenuti della riforma
costituzionale e il maldestro tentativo del governo di marcare la propria distanza dall’Unione con scelte
simboliche (la sparizione delle bandiere dell’Ue durante le conferenze stampa) e alzando i toni con
Bruxelles in occasione del parere della Commissione sulla Legge di Stabilità.
Al di là del teatrino mediatico, la riforma determinerà infatti un’ulteriore cessione di sovranità del nostro
paese alla Ue, analoga a quella realizzata nel 2012 con l’approvazione dell’art. 81 sul pareggio in bilancio.
Che questo sia coerente con gli intenti della riforma è d’altra parte esplicito nella relazione introduttiva del
Disegno di Legge Costituzionale del 8 aprile 2014. Sotto il titolo “Le ragioni della riforma”, è il governo
stesso a spiegare quali ne siano gli obiettivi:
Lo spostamento del baricentro decisionale connesso alla forte accelerazione del processo di integrazione
europea e, in particolare, l’esigenza di adeguare l’ordinamento interno alla recente evoluzione della
governance economica europea (da cui sono discesi, tra l’altro, l’introduzione del Semestre europeo e la
riforma del patto di stabilità e crescita) e alle relative stringenti regole di bilancio (quali le nuove regole
del debito e della spesa); le sfide derivanti dall’internazionalizzazione delle economie e dal mutato
contesto della competizione globale.
Nell’inquadrare la riforma nell’ambito della governance economica dell’unione, il governo non dà solo
una chiave interpretativa, ma rimanda ad alcuni passaggi precisi. Me ne sono reso conto solo di recente,
su indicazione di Luciano Barra Caracciolo, che sul suo blog spiega la questione nel modo seguente:
«Come rendersi conto della European connection, ve lo indico in una breve sintesi suddivisa in semplici
steps: a) prendete il testo della riforma costituzionale col raffronto del testo originario della Costituzione
del 1948; b) verificate il testo dei nuovi articoli artt. 55 – “Le Camere”: cioè conformazione, struttura e
“mission” istituzionale delle Camere) – e 70 – “La formazione delle leggi”: cioè procedure e contenuti
generali, ma anche “tipizzati”, della funzione legislativa, ripartiti per competenze tra le due “nuove”
Camere; e quindi definizione delle procedure in base a cui, certe leggi, con certi contenuti, devono esserci
immancabilmente, violandosi altrimenti il dettato costituzionale, sia quanto alla mission che all’oggetto
deliberativo delle Camere stesse; c) vi accorgerete che l’effetto aggiuntivo più eclatante, rispetto alle
previsione della Costituzione del 1948 è che “la partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione
della normativa e delle politiche dell’Unione europea” è divenuta un contenuto super-tipizzato e dunque,
potere-dovere immancabile, della più importante funzione sovrana dello Stato (quella legislativa): ergo, la
sovranità italiana è, per esplicito precetto costituzionale, vincolata, per sempre, ad autolimitarsi attraverso
l’adesione alla stessa UE che, per logica implicazione, diviene un obbligo costituzionalizzato.»
In poche parole: la partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle
politiche dell’Unione europea diventa un dovere costituzionale. Immagino l’obiezione: che differenza c’è
rispetto ad oggi? Non abbiamo sottoscritto dei trattati comunque vincolanti per il nostro paese? Ad essa si
può rispondere osservando innanzitutto che si potrebbe arrivare a dubitare che a seguito della riforma
l’Italia possa, in presenza di circostanze che lo rendano necessario o desiderabile, decidere di non far più
parte dell’Unione europea. Tale scelta potrebbe infatti essere viziata da incostituzionalità, in quanto
renderebbe impossibile per il Parlamento l’adempimento di una sua funzione. Così Barra Caracciolo:
«d) Non potrebbe dunque non essere, lo Stato italiano, parte dell’Unione, così com’è (dato che la
previsione costituzionale non parla di alcuna iniziativa tesa alla revisione e al dinamico aggiornamento
dei trattati stessi), altrimenti il Parlamento, cioè il teorico massimo organo di indirizzo politico-
democratico, non sarebbe in grado di adempiere al suo dovere costituzionalizzato.»
Quella di uscita dalla Ue è un’ipotesi estrema. Ma, come già è avvenuto per l’art. 81 sul pareggio di
bilancio, l’esplicita previsione in Costituzione della “formazione e attuazione della normativa e delle
politiche dell’Unione europea”, avrebbe effetti anche in circostanze più concrete:
«6. E, infatti, questo non può che avere riflessi sulla stessa propensione della Corte costituzionale a
sindacare, con effettività e concreta comprensione della natura delle politiche che ci impone l’Unione
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