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Da Infolampo: Nonautosufficienza – Banche

fondo_non_autosufficienzaNon autosufficienza, fallito il fai da te torna il confronto

Il tema sembrava sparito dall’agenda politica. Come se nel nostro Paese non esistessero tre milioni di

persone – in gran parte anziane – in condizioni di estrema vulnerabilità. Il sindacato intende contribuire

alla ripresa del dialogo con precise proposte

di Stefano Cecconi

Dopo un lungo silenzio, il governo si è deciso a riaprire il confronto con sindacato e associazioni sulla

non autosufficienza. Il tema sembrava sparito dall’agenda politica. Come se nel nostro Paese non

esistessero tre milioni di persone (vedi Network Na Rapporto

2015), di cui 2,5 milioni anziane, in condizioni di non

autosufficienza. Senza contare i loro familiari, i volontari che

si prendono cura di loro, le lavoratrici e i lavoratori che si

occupano del settore delle Ltc (Long term care: cure a lungo

termine).

La ripresa del dialogo è stata possibile, e resa credibile,

perché il Fondo per la Na, pur assolutamente insufficiente,

con soli 400 milioni di euro, da quest’anno diventa stabile

(fino a oggi è stato finanziato anno per anno) e permette

quindi di ragionare in prospettiva. Il governo ha presentato

una bozza di proposta di Piano nazionale (Pna) e per una

possibile definizione dei Livelli essenziali per la Na (Lesna).

La Cgil, insieme allo Spi, e naturalmente con Cisl e Uil, intende contribuire al confronto con precise

proposte, che hanno fondamenta solide nella Legge di iniziativa popolare sulla Na, per la quale sono state

raccolte oltre mezzo milione di firme nel 2005 e che, fatti i necessari aggiornamenti, è del tutto valida:

un’attualità della proposta che dimostra quanto poco sia stato innovato il nostro welfare.

E che il nostro sistema di welfare abbia una lacuna clamorosa nell’offerta di servizi e prestazioni per

rispondere ai bisogni-diritti delle persone non autosufficienti, ce lo ricordano le istituzioni internazionali:

dall’Organizzazione mondiale per la sanità (Oms) all’Ocse, con l’ultima revisione sulla qualità

dell’assistenza in Italia. Il welfare italiano non ha saputo ancora organizzarsi di fronte alle trasformazioni

della domanda sociale e di salute dovute ai cambiamenti demografici, invecchiamento della popolazione e

riduzione dei componenti della famiglia in primo luogo. Oggi si vive molto più a lungo: si tratta di una

conquista positiva, dovuta al miglioramento delle condizioni di vita e alla presenza di un servizio

sanitario pubblico e universale.

Ma, soprattutto tra gli anziani, si vive male: sulla qualità della vita e sugli anni persi per disabilità, l’Italia

si ritrova con i peggiori indicatori in Europa rispetto agli altri Paesi. E allora, come raccomanda l’Oms,

bisogna rendere possibile a tutti tutto ciò che serve a vivere meglio: con la prevenzione primaria,

l’adozione di stili di vita salutari, condizioni di vita buona e dignitosa (reddito, casa, istruzione,

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Presentata oggi a L’Aquila

la Festa di LiberEtà

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www.lettera43.it

Vitucci: «Le banche tornino a gestire le sofferenze»

Renzi pensa all’intervento statale. Ma è una necessità soltanto per pochi istituti. Gli altri? «Facciano dei

Npl un core business». Vitucci di Nomisma a Lettera43.

di Davide Gangale

La Brexit spinge il governo Renzi e le banche italiane a correre ai ripari.

I fronti sui cui agire sono sempre due: favorire la ricapitalizzazione degli istituti in difficoltà, garantendo

un salvagente che tuteli i risparmiatori. E risolvere (finalmente) un problema che si trascina per lo meno

dal 2008, cioè dal giorno successivo al fallimento della Lehman Brothers: alleviare il peso dei crediti

deteriorati e delle sofferenze sul sistema creditizio.

L’esecutivo non esclude interventi diretti nel capitale delle banche, diversi caso per caso, mentre Ubi

Banca, quinto gruppo italiano per numero di sportelli, ha presentato un nuovo Piano industriale che alza

la copertura dei crediti deteriorati (dal 37,8 al 43,3%) e delle sofferenze (dal 52,6 al 58%). Una manovra

da 850 milioni di euro (che prevede anche 2.750 esuberi).

«Non abbiamo bisogno di capitale, ma anzi andiamo a generarlo», ha detto il Ceo di Ubi, Victor Massiah.

UN NUOVO CORE BUSINESS? Di sicuro c’è che, dopo la Brexit, le nuove turbolenze sui mercati

finanziari richiedono soluzioni non più rinviabili. «Se l’Italia avesse avuto un atteggiamento di presa

d’atto del problema, in tempi in cui era possibile attingere a fondi europei per mettere a posto il sistema

bancario, sarebbe stato meglio», spiega a Lettera43.it Michele Vitucci, esperto del settore e consulente di

Nomisma. «Ricorrere al fondo Salva-stati, con tutte le conseguenze che ciò avrebbe comportato, anziché

cullarsi nell’idea che il sistema fosse solido, sarebbe stato pur sempre preferibile al bail in».

Del resto, se un mercato italiano delle sofferenze stenta a vedere la luce, per Vitucci, non è un caso:

«Domanda e offerta non s’incontrano. Il valore che gli investitori potenzialmente interessati attribuiscono

a questi asset è molto inferiore alle valutazioni delle banche stesse».

La vera alternativa alla vendita, per le banche, sarebbe «tornare a gestire le sofferenze. Se sono davvero

convinte di avere del valore nei loro bilanci, perché non trasformarlo in un ‘nuovo’ core business?».

DOMANDA. Nel 2015 il Fondo monetario internazionale proponeva una soluzione di mercato per le

sofferenze bancarie italiane. Post-Brexit quella ricetta è ancora valida?

RISPOSTA. All’epoca la contrapposizione era con la creazione di una bad bank. Il Fmi proponeva

interventi più strutturali, più incisivi, non legati a eventi imprevedibili come la Brexit. Direi quindi che

quella ricetta è ancora valida.

D. Oggi, però, il governo ipotizza un ingresso diretto dello Stato nel capitale delle banche…

R. Per alcuni istituti di credito, dopo la Brexit, più che un’alternativa al mercato questa potrebbe essere

una necessità. Le banche che già erano deboli prima, adesso lo sono ancora di più. Il problema della

capitalizzazione esiste a prescindere, la Brexit non fa altro che esasperarlo.

D. Che forma potrebbe prendere l’intervento pubblico?

R. Al momento se ne sa troppo poco per fare previsioni. I provvedimenti, una volta scritti, vanno letti

con attenzione. Il problema di fondo, però, è sempre lo stesso: chi paga? Guardi ad esempio cosa è stato

fatto con il fondo Atlante. Il capitale a disposizione, fornito da soggetti privati, doveva servire per

intervenire anche sulle sofferenze bancarie. Alla fine è stato assorbito quasi per intero dagli aumenti della

Popolare di Vicenza e di Veneto Banca.

D. Sarebbe stato meglio muoversi prima?

R. Se l’Italia avesse avuto un atteggiamento di presa d’atto del problema, in tempi in cui era possibile

attingere a fondi europei per mettere a posto il sistema bancario, sarebbe stato meglio. Anziché continuare

a ribadire, come una mantra, ‘il nostro sistema bancario è solido’, l’Italia avrebbe potuto ricorrere al fondo

Salva-stati come ha fatto, per esempio, la Spagna.

D. E sottostare così alle prescrizioni della Troika?

R. Innanzitutto, sarebbe stato necessario riconoscere il problema. In secondo luogo aderire alle richieste

delle istituzioni. Poi, però, è arrivato il bail in. Gli spazi di manovra si sono notevolmente ridotti. Anche

le banche tedesche hanno dei problemi, beninteso. Ma la Germania non ha il nostro debito pubblico.

D. Congelare o rivedere il bail il in sede europea le sembra una prospettiva credibile?

R. La Brexit apre scenari che potrebbero essere considerati eccezionali. Occorre capire se i trattati

offrono qualche spiraglio, se è possibile attivare le clausole previste solo in caso di stress sistemici. In un

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sofferenze_43675251394.htm