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Da Infolampo: Stranieri – Centri antiviolenza

2bigAnnullata tassa su permessi di soggiorno, ma i ministeri fingono di non sapere. L’Inca: la sentenza del

Tar ha valore di legge. Pertanto il contributo aggiuntivo imposto agli immigrati non è dovuto e nessuno è

tenuto a versarlo né tanto meno a pretenderlo

di Lisa Bartoli, Inca

A 15 giorni dall’annullamento della tassa aggiuntiva sui permessi di soggiorno, decretato dal Tar del

Lazio, le amministrazioni non hanno ancora ricevuto alcuna

indicazione operativa da parte dei ministeri Esteri ed Economia, in

merito al comportamento da tenere nei confronti di tanti immigrati che

chiedono il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno, senza dover

pagare una sopratassa, già giudicata in prima battuta dalla Corte di

giustizia europea “sproporzionata” e di “ostacolo” alle finalità di

integrazione perseguite dalla direttiva europea e 2003/109/CE.

Nonostante il Tar del Lazio, con la sentenza n. 06095/2016, prendendo

atto del pronunciamento della Corte europea, abbia ordinato alle

amministrazioni la totale “disapplicazione”, le questure brancolano nel

buio attendendo dai ministeri competenti indicazioni di merito sulla

questione. “Quello che sta avvenendo – spiega Claudio Piccinini,

coordinatore degli uffici Immigrazione dell’Inca – non è degno di un

paese civile. Sono passati quindici giorni dalla sentenza del Tribunale

amministrativo laziale e ancora i ministeri competenti non si sono

degnati di battere un colpo, nonostante il pronunciamento chiaro di

nullità della norma che imponeva agli immigrati il pagamento di una

tassa davvero troppo alta”.

La controversia nasce da un ricorso patrocinato dall’Inca avviato subito

dopo l’entrata in vigore della norma, contenuta nel decreto ministeriale

del 6 ottobre 2011, con la quale è stato imposto agli stranieri richiedenti il rilascio o il rinnovo dei

permessi di soggiorno una tassa davvero salata che oscilla dagli 80 ai 200 euro, quale ulteriore contributo

aggiuntivo rispetto ai 30,46 euro. Il Tar del Lazio, a cui si sono rivolti i legali del patronato della Cgil, ha

chiesto un parere alla Corte di giustizia europea per verificare se la misura fosse coerente con le direttive

comunitarie sulla materia. Il giudizio che ne è seguito non ha lasciato ombra di dubbio alcuna,

accogliendo tutte le obiezioni avanzate nel primo ricorso al tribunale amministrativo dai legali dell’Inca.

Il contenzioso legale è tornato, quindi, nelle mani del Tar, il quale, con la sentenza del 25 maggio scorso,

ha cancellato ogni supporto giuridico alla norma ordinando alle amministrazioni la sua totale

disapplicazione.

“Ci aspettavamo un effetto immediato – spiega Piccinini – che però non c’è stato. Ancor oggi, dobbiamo

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«Siamo con la Francia

che scende in piazza»

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Centri antiviolenza, parte l’indagine nazionale

Quale futuro per le donne che abbandonano una relazione violenta? È partita la prima indagine

nazionale sui modelli di accoglienza dei centri antiviolenza in Italia

di Barbara D’Amen

Dall’inizio dell’anno in Italia si contano già 57 femminicidi. Gli ultimi dati Istat confermano che la

violenza di genere, nelle sue varie manifestazioni, è un fenomeno diffuso e trasversale, che interessa

donne di ogni età e classe sociale del nostro paese. Questa situazione impone una riflessione profonda,

indirizzata a definire non solo il profilo delle vittime e dei diversi tipi di violenza subita, ma anche le

condizioni in cui operano i servizi deputati alla gestione del fenomeno e il tipo di opportunità che questi

offrono ai diversi territori. Come la cronaca di questi giorni ci ricorda, troppo spesso, e nonostante

abbiano maturato un’esperienza consolidata, i centri antiviolenza si trovano a non poter garantire la

continuità dei propri interventi. È il caso del centro “Donatella Colasanti e Rosaria Lopez” che insieme ad

altri centri del comune di Roma si trova adesso a misurarsi con il rischio di chiusura. Sempre più

importante, allora, si pone la questione del rilevare le caratteristiche organizzative e operative di questi

soggetti al fine di pianificare interventi di policy lungimiranti.

Questo particolare ambito d’indagine, tuttavia, in Italia appare lacunoso. Ad oggi manca una rilevazione

sistematica ed estensiva, basata su indicatori omogenei e in quanto tali comparabili, in grado di rilevare i

diversi tipi di servizi e i modelli di accoglienza attuati per il supporto delle donne che vivono storie di

violenza. Tuttavia, l’assenza di una rilevazione di tipo estensivo non si traduce in una carenza totale di

dati sul tema ma, al contrario, nell’esistenza di indagini parziali, condotte da associazioni o da reti di

servizi, al fine di avere contezza delle proprie attività. Questa tendenza, riscontrata anche in Svezia e in

Austria, è resa nota dalla recente indagine condotta dalla rete internazionale Wave – Women against

Violence, i cui risultati sono stati diffusi nel mese di aprile 2016.

L’indagine, destinata a produrre un’istantanea delle banche dati attualmente esistenti in Europa sui diversi

servizi di supporto alle donne vittime di violenza – classificati in linee telefoniche, case rifugio e centri

antiviolenza senza ospitalità – ha lo scopo di individuare i principali metodi di rilevazione e le relative

tipologie di dati esistenti. Nei risultati dell’indagine, il profilo italiano si distingue per l’esistenza di varie

iniziative di raccolta dati che danno origine a un patrimonio conoscitivo frammentato, caratterizzato da

informazioni parziali, poiché relative alle attività di una classe limitata di soggetti, e al contempo isolate,

poiché non integrabili in un data set più ampio, come una banca dati nazionale.

Questa frammentazione delle iniziative di reperimento dei dati, unitamente all’assenza di un

coordinamento nazionale in grado di promuoverne l’integrazione e la condivisione, comporta un

depotenziamento del patrimonio informativo disponibile e non consente di sviluppare una visione

organica e, in quanto tale, realistica dei vari servizi esistenti sul territorio nazionale. Di conseguenza,

questa situazione può avere effetti negativi sull’efficacia delle scelte politiche che, non potendo riferirsi a

un patrimonio informativo ampio ed esaustivo, rischiano di produrre azioni di portata limitata, sia negli

effetti sia nel volume dei potenziali beneficiari.

È sulla base di queste evidenze che è nata l’idea di realizzare la prima indagine nazionale sui modelli di

accoglienza dei centri antiviolenza in Italia, che sto attualmente curando come coordinatrice

scientifica[1].

L’indagine in questione ha l’obiettivo di rilevare i principali modelli di accoglienza adottati dai centri

antiviolenza operanti nelle diverse regioni italiane, per ricostruire il tipo di opportunità disponibili nei

diversi territori per il supporto e l’accompagnamento delle donne e dei loro bambini nel difficile percorso

di uscita da una relazione violenta.

Indagare le caratteristiche presentate da questi particolari servizi consente di individuare le reali

opportunità che le donne hanno a disposizione e capire quanto è stato fatto, e quanto invece c’è ancora da

fare per arginare un fenomeno sociale così rilevante. Destinatari della rilevazione sono i centri

antiviolenza, con e senza ospitalità, presenti su tutto il territorio nazionale, mentre sono esclusi

dall’indagine, sia i servizi che svolgono un ruolo di primo contatto e orientamento sul territorio – tra cui

alcuni sportelli antiviolenza – sia le case rifugio, le cui condizioni di segretezza spesso non ne consentono

una precisa individuazione.

All’indagine si è giunti mediante un percorso di studio articolato che, attraverso l’alternanza continua dei

metodi (analisi desk e ricerca sul campo) e delle tecniche (interviste a testimoni privilegiati, focus group),

ha condotto alla costruzione dello strumento di rilevazione, costituito in questo caso da un questionario

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