GIUSEPPE GIOACHINO BELLI NELLE CAMPAGNE ELETTORALI
Il 25 maggio del 1952 a Roma ci tennero le elezioni per il Campidoglio in un
clima di notevole incertezza. Già cinque anni prima, nel 1947, la coalizione di
sinistra (PCI e PSIUP) aveva avuto il miglior risultato con il 33,34% dei voti e 28
seggi, mentre la Democrazia Cristiana con il 32,70% dei voti aveva acquisiti 27
seggi e per poter formare la giunta capitolina si dovette alleare con il Fronte
dell’uomo qualunque (8 seggi) ed il Partito Liberale (1 seggio). Determinanti
furono i tre voti del Movimento sociale Italiano che diede l’appoggio esterno.
Il Sindaco, l’architetto Salvatore Rebecchini con una maggioranza striminzita di
41 voti su 80 governò la città per ben cinque anni e si presentò alle elezioni del
1952, forte delle realizzazioni e dei progetti avviati per risollevare una città
distrutta dalla guerra, non solo materialmente. Basti ricordare i lavori in via della
conciliazione per ospitare l’anno santo del 1950, la nuova stazione ferroviaria di
Termini e la realizzazione tra il 48 ed il 49 di oltre 110.000 vani per l’edilizia
popolare. Fervente cattolico e legato alla curia vaticana, spese ogni energia per la
nuova viabilità della città eterna, raccogliendo forti critiche dalle opposizioni e dai
giornali di sinistra da parte di molti intellettuali e artisti dell’epoca.
La campagna elettorale del 1952, in un forte clima di contrapposizione, vide i
partiti della sinistra storica acquisire un largo consenso popolare con 306.803 voti
contro i 285.306 conquistati dalla DC, che con il nuovo sistema elettorale
maggioritario, istituito con la Legge Scelba (definita dalla opposizioni: legge
truffa), ottenne da sola ben 39 seggi su 80, realizzando una larga maggioranza in
consiglio comunale, con l’alleanza del Partito Sociale democratico, del Partito
Repubblicano e del Partito Liberale.
Tra le diverse forme di propaganda impostata sui tantissimi comizi in piazza ed i
manifesti che tapezzarono tutta la città, circolò un opuscolo di 16 pagine senza
copertina e una stampa a due colori separati (il nero ed il verde), con un formato,
simile a quello dei libri (16,7 x 24 centimetri). Nella prima pagina il titolo a lettere
cubitali diceva “CHI TANTO E CHI GNENTE” sottotitolo: 12 sonetti di G. G.
Belli raccolti e annotati da Peppe er Tosto e Monsignor Tizzani per le elezioni del
25 maggio 1952 ROMA. In alto capeggiavano due ovali con ricca cornice verde e
i due ritratti di un Belli maturo e di Mons. Tizzani in abito talare. Sul retro del
libretto un medaglione con stilizzato il palazzo del Campidoglio e con carattere
minuto in basso il riferimento alla tipografia: La stampa moderna s.r.l. Roma. Il
fascicolo era rilegato con una graffetta metallica al centro.
Vana è stata la ricerca del nome del curatore, o meglio dei curatori da momento
che nell’introduzione, inserita nella seconda e terza pagina, viene usato il plurale.
Quindi si può tentare un’ipotesi per la loro identificazione attraverso il contenuto
delle due pagine e dei commenti posti in calce ad ognuno dei 12 sonetti presentati.
Altro elemento utile si può trarre dalla scelta di aver inserito l’immagine di un
monsignore accanto a quella del Poeta, forse per accreditarsi di fronte ad un
elettorato cattolico, oppure per riequilibrare la diffusa conoscenza tra i romani del
più noto Poeta romano Trilussa (al secolo Carlo Alberto Salustri) deceduto poco
tempo prima, nel dicembre del 1950.
Le poesie di Trilussa venivano declamate nei teatrini di borgata, nelle feste
paesane, nelle trattorie trasteverine a favore di turisti e pellegrini che affollavano
la città eterna. Alcune erano state assunte come emblema della situazione sociale
e addirittura come rappresentazione del calcolo statistico. Basti pensare al pollo
che viene mangiato intero da qualcuno, mentre altri lo possono solo desiderare. A
fronte di questa notorietà, Belli appare come un perfetto sconosciuto ai più,
relegato nel circolo ristretto dei pochi conoscitori della sua monumentale opera.
Tra questi, solo per citarne uno che competeva nella campagna elettorale, lo stesso
sindaco Rebecchini grande conoscitore del Poeta, tanto che nel 1970 pubblicherà
un interessante studio sulle dimore cittadine del Belli..
Tanti potevano essere gli ispiratori o gli estensori materiali del libretto, non solo
gli studiosi del periodo, ma anche gli estimatori del Belli impegnati in politica o
nella solidarietà sociale. Citarli si corre il rischio di clamorose omissioni, ma un
grande estimatore della poesia in romanesco scritta da “Peppe er Tosto” e
personaggio certamente non impegnato nella competizione elettorale era il
Cardinale Domenico Tardini (1888-1958) che ebbe a scrivere in un saggio
intitolato “I due Belli”, pubblicato postumo nel 1963, anno del centenario della
morte di Belli, che si chiudeva con la celeberrima frase: “Per noi il Belli
accademico è morto per sempre, mentre sempre più viva brilla e brillerà la luce a
la grandezza del Poeta di Roma”.
Conviene quindi riportare alcune brani significativi della Presentazione.
“”Questi dodici sonetti scelti tra i più di duemila che formano il corpo dell’opera
immortale di Giuseppe Gioachino Belli, sono rappresentativi del principale
aspetto dell’ispirazione del grande poeta: la satira amara e drammatica, la
considerazione dolorosa di uno dei più atroci contrasti fra ricchi e poveri che si sia
mai verificato nella storia dell'umanità.”” (omissis)””Ma il popolo di Roma, gli
uomini semplici, i lavoratori, hanno mai potuto conoscere per esteso e
profondamente – come merita il loro- contenuto potente e vero – i versi che fanno
del Belli non soltanto un grande poeta dialettale ma uno dei più alti ingegni di tutti
i tempi? No. 1 versi di Giuseppe Gioachino Belli non hanno potuto, diventare
popolari. La statua del poeta che sorge in Piazza Sonnino alle soglie di Trastevere
è muta. Poche e ridotte sono le edizioni dei Sonetti Romaneschi, oggi
completamente esaurite sul normale mercato dei libri””.””Da almeno dieci anni si
parla di una nuova edizione completa ma essa è diventata come l’Araba Fenice o
come il velo di Penelope. Vedrà mai la luce? Sembra un destino di Roma quello di
vedere sbiadire nel tempo le più ardite tradizioni popolari e le figure stesse degli
eroi che tra le sue mura e sui suoi selci combatterono, in epoche diverse, per la
libertà e per il progresso””.
“”Se muta è la statua del poeta, tacciono anche le lapidi dedicate all'eroina
Giuditta Taviani Arquati (1) e agli operai che nel combattimento di Casa Ajani in
Trastevere, immolarono la vita sotto il piombo delle truppe straniere chiamate dal
papato per impedire che Roma si unisse alla madre patria. E tacciono sotto la
polvere i mille e mille nomi di popolani romani carcerati, condannati, torturati,
giustiziati dal potere temporale per aver amato la libertà e l'Italia””. (omissis)
“”Giuseppe Gioachino Belli non fu poeta civile nè partecipe dei movimenti
democratici e rivoluzionari. Ma fu poeta del popolo, amico della verità, amante di
Roma e fratello dei suoi ciorcinati abitatori. Per questo chi ha tentato di azzittire
la memoria dei martiri delle lotte patriottiche e sociali, ha reso muta anche la
statua e la memoria del poeta””.””Ma non è muto il popolo romano. La sua voce
si è fatta sempre più forte e autorevole contro la miseria, la soprafazione,
l’ingiustizia e la dominazione straniera verrà anche il giorno in cui le statue degli
eroi e dei poeti riprenderanno a parlare a voce alta in modo che tutti possano
sentire e conoscere. Disgraziato colui che nel sentire dovrà vergognarsi del suo
passato!”” (omissis)
Viene poi riportato un testo pubblicato a Milano nel 1862 sullo stato delle
provincie romane in quegli anni in cui povertà, desolazione, debito pubblico,
arretratezza strutturale dei commerci e delle industrie, fanno da padrona, come a
voler significare che da allora ad oggi nulla sia cambiato. Poi la firma e la
chiusura del testo.
“”Sotto il nome di Peppe er tosto e di Monsignor Tízzani hanno creduto di
nascondersi. coloro che, certi di non far torto alla memoria del poeta e del dotto
sacerdote, hanno curato la presente pubblicazione. Sia il poeta che il dotto
sacerdote non potrebbero che condividere la presentazione odierna di dodici
Sonetti che nel loro assunto fondamentale, alla distanza di più di un secolo,
indicano al lettore una piaga non sanata, che anzi si vorrebbe ancora sanguinante:
quella della miseria, dell'ingiustizia, della soprafazione clericale nella capitale
d'Italia””.
I DODICI SONETTI
Nel fascicolo, accanto al titolo delle poesie, ci sono dei disegni che illustrano
l’argomento, con una patina uniforme di verde. Il tratto è apparentemente
semplice, ma cattura l’attenzione del lettore con le espressioni del viso e
dell’atteggiamento dei protagonisti. Il tutto in piena sintonia con il tema trattato e
il commento sottostante.
Per quanto attiene ai sonetti, che vengono in seguito elencati, è opportuno
analizzare la grafia utilizzata per cercare di individuare la pubblicazione dalla
quale sono stati tratti. Il fascicolo, che aveva l’intento di raggiungere un pubblico
vasto, costituito anche da non romani migrati da altre regioni, doveva essere
facilmente comprensibile e quindi non era adatta una grafia presa dai manoscritti
originali, che vedrà la luce nel novembre di quello stesso anno nella edizione di
Mondadori curata a Giorgio Vigolo.
Gli stessi curatori nella loro prefazione affermano che: “Poche e ridotte sono le
edizioni dei Sonetti Romaneschi, oggi completamente esaurite sul normale
mercato dei libri.” Quindi è necessario andare a ritroso nel tempo per individuare
quali testi potevano essere nelle mani di questi volenterosi. C’era una edizione
Danesi di cui erano usciti due volumi a cura di Roberto Vighi e Giorgio Vergara
Caffarelli negli anni 1944 e 1945, nonché un volume dal titolo particolare: “Er
Commedione” uscito nel 1944 a cura di Antonio Baldini per i caratteri
dell’Editore Colombo. Entrambe le raccolte utilizzavano una grafia semplificata al
pari di quella del fascicolo elettorale.
Per fare un confronto viene qua riprodotta la Poesia “Er ferraro” che apre la
piccola rassegna del fascicolo.
ER FERRAROPe’ mantene’ mi mojje, du’ sorelle,E quattro fiji, io so
Ch’a sta fucinaComincio co’ le stelle la matinaE finisco la sera co’ le
stelle.
E, quanno ho messo a risico la pelleE nun m’areggo più sopr’a la
schina,Cos’ho abbuscato? Ar zommo, una trentinaDe bajocchi da
empicce le budelle.
Eccolo er mi’ discorzo, sor Vincenzo:Quer chi tanto e chi gnente è
‘na commedia,Che m’addanno ogni vorta che ce penzo.
Come! io dico, tu sudi er zangue tuo,E tratanto un Zovrano s’una
ssedia,Co' du’ schizzi de penna, È tutto suo!
A seguire: quella pubblicata nell’edizione Danesi di Roma (2° volume, pag. 349)
ER FERRARO
Pe mantené mi’ moje, du’ sorelle,e quattro fiji, io so ch’a sta fucina
comincio co le stelle la matinae finisco la sera co le stelle. 'E quanno
ho messo» a risico la pelle .e nun m’areggo più sopr’a la schina,
cos’ho abbuscato? Ar sommo, una trentinade bajocchi da empìcce le
budelle.
Eccolo er mi’ discorso, sor Vincenzo:quer chi tanto e chi gnente è
‘na. commediache m’addanno ogni vorta che ce penzo.Come!, io
dico, tu sudi er sangue tuo,e tratanto un Sovrano s’una sedia,co du’
schizzi de penna, è tutto suo !
Le poche differenze che balzano subito agli occhi, consistono nell’uso della
maiuscola all’inizio di ogni verso della poesia inserita nel fascicolo. Altra piccola
differenza è la ssedia del 13° verso, sempre nell’edizione del fascicolo.
Trattandosi di una pubblicazione con dichiarato intento politico, interessante è
valutare i commenti messi in calce per collegare le poesie del Belli con le
tematiche della città di Roma a distanza di oltre cento anni dalla loro
composizione. Tralasciando di riportare i testi dei sonetti, facilmente reperibili. Si
riportano per intero – accanto al titolo – le didascalie dai Curatori.
1 – ER FERRARO – Il fabbro ferraio lavora dodici ore al giorno e a stento
guadagna di che sfamare appena una numerosa famiglia. Ma spesso egli rischia la
vita e si logora l’esistenza senza neppure realizzare quella minima somma. Chi
tanto e chi niente: perché? Quale assurda e intollerabile commedia è mai questa?
La causa della ingiustizia risiede tutta nel privilegio di chi senza lavorare, e
soltanto in nome della sua ricchezza e della sua prepotenza, può con un semplice
tratto di penna decidere della vita e della morte del popolo.2 – LA VIGIJA DE
NATALE – Un popolano descrive all'amico Eustacchio il luculliano corteo che
attraversa il portone di un qualsiasi ricco prelato la vigilia di Natale. Quel che più
tocca la meraviglia del poeta non è tanto la grande dovizia e varietà delle vivande
quanto il modo come l’alto clero esige dai fedeli, prove di devozione alle supreme
gerarchie.
3 – LA CARITA’ – Davanti al tristo esempio dei potenti e dei ricchi, sentano
almeno gli uomini il dovere della solidarietà e lottino contro la tracotanza e
l’avidità di coloro che impongono al mondo la dolorosa e assurda divisione tra
ricchi c poveri, tra padroni c schiavi, dimenticando che la natura stessa e la stessa
religione di Cristo proclamano gli uomini tutti eguali, tutti Figli di Adamo.
4 – LA FAMIJIA POVERELLA – I bambini hanno fame, il luogo è buio: manca
perfino la goccia d'olio per accendere uno stoppino. Dove siamo? ln una
catapecchia di Trastevere o in una baracca di Borgo? In una grotta alle pendici di
Villa Glori o del Monte Aventino, in periferia o al centro di Roma? ll poeta non lo
racconta. Egli ricorda solo fame, miseria, freddo. Sono il frutto dell’ingiustizia e
della disoccupazione. Ogni giorno il padre esce come un lupo, alla ricerca di un
tozzo di pane. Lo avrà trovato? Ecco l’angoscia nella quale vivono migliaia e
migliaia di famiglie. Sullo sfondo della tragica scena trionfa la grande forza
umana della donna: la madre popolana.
5 – ER POVERO LADRO – Può esistere vera giustizia in una società dove chi è
spinto a rubare per fame viene giudicato e condannato dagli stessi detentori della
ricchezza? Pancia piena non conosce digiuno dice un proverbio popolare diffuso
in tutta Italia. Ma a Roma la stessa amara costatazione è maturata nell’esperienza
del popolo in forma ben più crudele: chi cíà quattrini nun va mai carcerato e
addirittura chi cià è, e chi nun cíà nun è. Altro che invocare umana comprensione!
L’uomo senza danaro non è uomo, ma bruta materia da dominare e sfruttare.
6 – LA BONIFICENZA – Esplode l’ira del popolo quando la carità, è, come si
dice, pelosa, o addirittura peggio: una untuosa menzogna, un tentativo di far
dimenticare in nome della religione la triste condizione di miseria, di
disoccupazione, di fame nella quale versa il popolo. Anime di cane, degni di
mordersi da se stessi il gomito, sono coloro che speculano sulla fede dei credenti e
nulla fanno per evitare davvero che centinaia di migliaia di bambini continuino a
chiedere pane senza ottenere altra risposta che il pianto disperato dei genitori.
7 – L’AMORE DE LI MORTI – Nella Roma pontificia l’industria funeraria
doveva certo essere una delle principali. Ma anche oggi il povero sa quanto costa
la morte. La vita però è assai più tribolata: tasse, ghigliottine, galere, frustate sul
deretano piegati in due sul cavalletto, pignoramenti (“ma er padre de famijja
poveretto nasce pe’ tterra, more alll’ospedale – e ssi ffiata cíabbusca er
cavalletto”). E persino il calvario del passaporto: ai tempi del Belli la “cortina di
ferro” passava lungo i confini tra lo Stato Pontificio e il resto d’Italia.
8 – LA RILIGGIONE DER TEMPO NOSTRO – In uno Stato nel quale la vita
dell’uomo non ha valore, È fatale che il vero e il buono della religione cristiana –
il Vangelo – valga ormai quanto la carta straccia. Vuoi apparire religioso e metterti
l’animo in pace? Prendi parte anche tu alla commedia a braccio che si recita senza
intervalli nella città dei falsi sacerdoti. Solo le cose esteriori contano e, se tenendo
d’occhio l’orologio, hai smesso di mangiare a Crepapelle la sera di vigilia, a
mezzanotte in punto, vai pure tranquillo a ricevere a pancia piena la santa
comunione!
9 – LE GABBELLE – Tutto il sistema di una società ingiusta è fondato sullo
sfruttamento dell’uomo da parte dell”uomo. (Er ricco gode e er poverello suda)
Non soltanto si specula sul lavoro altrui ma anche sul consumo individuale di tutti
i giorni. E il povero al quale il governo ipocrita chiede apparentemente tasse
minori, paga in realtà una tassa ben più forte sul prezzo di quanto gli occorre per
vivere e per lavorare. Nè questa vergogna si limita al costo dei beni materiali.
Anche se vuoi prendere moglie, far cristiano tuo figlio, impedire che dopo morto
vada perduta la tua memoria, devi pagare.
10 – SEMO DACCAPO – Stava avvicinandosi alle porte di Roma il colera del
1835. Il governo pontificio faceva come al solito ricorso ai prodigi soprannaturali
anziché apprestare la necessaria assistenza per lenire le conseguenze del flagello.
Morte, sciagure, lutti? Basta convincere la gente semplice che la giustizia divina si
sta abbattendo sui peccatori. Aprano dunque gli occhi le Madonne di tutte le
chiese! Ma c'è di più. Anche quando accade nel mondo qualcosa che va nella
direzione del progresso è necessario che lo sdegno della divinità si manifesti
clamorosamente. Erano trentasei anni e qualche mese che non si verificavano più
simili prodigi. Esattamente dal tempo in cui (1799) le idee della Rivoluzione
francese avevano infiammato la speranza dei patrioti italiani.
11 – ER BON GOVERNO – Negli atti ufficiali del Governo pontificio si faceva
continuo riferimento, a proposito e a sproposito, alla paterna pietà della curia. Ma
la vita – ahimè! – della povera gente era assai misera e triste. “Fatti e non parole!”
sembra gridare il poeta. Gli uomini semplici non debbono lasciarsi ingannare,
nemmeno se alle pietose viscere e al cuore paterno si tenta oggi di aggiungere
l’inganno e la frode elettorale di De Gasperi e di Don Sturzo.
12 – LO SPECCHIO DER GOVERNO – La domenica nelle campagne intorno a
Roma i popolani giocavano a ruzzica. Si tratta di far rotolare a grande velocità e
più lontano possibile lungo le strade, una forma di cacio pecorino. Chi lancia più
lontano, conquista le forme degli altri concorrenti. Ma a lungo andare ogni forma,
ogni ruzzica, trova il sasso che la ferma, ne devia il corso e la fa saltare in aria,
riducendola in pezzi e frantumi. Questa è la sorte dei governi che malversano la
comune ricchezza (sbuzzicano, spandono male l’olio che sta nel buzzico),
coltivano la corruzione e opprimono i cittadini.
ELEZIONI REGIONALI NELLE MARCHE
Nei giorni 28 e 29 marzo del 2010 si sono svolte le elezioni in diverse regioni, tra
le quali le Marche, suddivise in cinque sottoscrizioni per quante sono le provincie
marchigiane. La competizione elettorale aveva visto la contrapposizione tra le due
coalizioni storiche del centro sinistra (che acquisì il 52,17% dei voti e 50
consiglieri su 80) e quella del centro destra con il 39,71% dei voti e 28 consiglieri.
Nello specifico, stante la previsione di una riconferma del precedente
schieramento, la campagna elettorale si svolse soprattutto tra i candidati presenti
nelle varie liste e all’interno del Partito Democratico che avrebbe ottenuto il più
alto numero di seggi. Quindici nella Regione e quattro nella circoscrizione di
Ancona dove si fronteggiavano i consiglieri uscenti e nuovi candidati ben radicati
nel territorio.
Una campagna elettorale che, pur prevedendo le classiche forme di propaganda
con manifesti, depliant individuale, pubblicità nelle radio e TV locali, necessitava
di nuovi strumenti che restassero nella mente e nelle tasche degli elettori per più
giorni e non solo al momento della distribuzione del materiale. Era altresì utile
che restassero nei luoghi condivisi quali gli uffici e nelle abitazioni.
Nacque così l’idea di un “tascabile” dalle ridotte dimensioni (10,4 x 14,6) che
parlasse di politica e non solo, utilizzando la letteratura dialettale sempre vicina
alla sensibilità delle persone. Una copertina cartonata dal titolo “Sonetti sulla
Politica” di Giuseppe Gioachino Belli con la riproduzione di un disegno di
Bartolomeo Pinelli che rappresentava dei popolani romani. All’interno brevi note
biografiche del Poeta romanesco e del curatore dell’opuscolo.
Fu così che nelle case e nei posti di lavoro della Provincia di Ancona arrivarono
ben otto mila opuscoli con i sonetti di Giuseppe Gioachino Belli in un’operazione,
nata sul piano elettorale e sfociata in una ampia diffusione culturale. Tanto che,
terminate le elezioni e gettate al macero volantini e materiale pubblicitario, mentre
ancora oggi molte persone hanno conservato i sonetti in romanesco.
La presentazione dell’opuscolo, firmata dal candidato Marco Luchetti, già
consigliere regionale, richiamava i temi politici ai quali facevano riferimento i 12
sonetti presentati, con una conclusione che vale la pena di riportare:
“Straordinario Gioachino! Poeta e satirico di rara sensibilità, pacioso
come romano e arguto come un marchigiano. Ci propone pensieri sulla politica
che ancora oggi ci pongono domande, ci offrono considerazioni sulla
contemporaneità, sollecitano la nostra attenzione e responsabilità sociale e ci
inducono a considerare il nostro modo di vivere il mondo.”
I testi dei sonetti, nella grafia adottata dalla edizione Feltrinelli del 1965, a cura di
Maria Teresa Lanza, nonché i commenti letterali posti a fronte degli stessi sonetti,
tratti dalle seguenti pubblicazioni: “Potenti, santi, monsignori e bona gente” del
2006; “Arti e mestieri” del 2007; infine dalla “Sagra religione” del 2009; tutte
curate da Manlio Baleani. Per favorire un confronto viene riproposta la Poesia “Er
ferraro” nella edizione Feltrinelli.
ER FERRARO
Pe mantené mi’ moje, du’ sorelle,
e quattro fiji, io so ch’a sta fucina
comincio co le stelle la matina
e finisco la sera co le stelle.
E quanno ho messo» a risico la pelle .
e nun m’areggo più sopr’a la schina,
cos’ho abbuscato? Ar sommo, una trentina
de bajocchi da empìcce le budelle.
Eccolo er mi’ discorso, sor Vincenzo:
quer chi tanto e chi gnente è ‘na. commedia
che m’addanno ogni vorta che ce penzo.
Come!, io dico, tu sudi er sangue tuo,
e tratanto un Sovrano s’una sedia,
co du’ schizzi de penna, è tutto suo !
Vengono elencati i sonetti con il “Tema politico” che si intendeva evidenziare.
1) Er scariolante de la bonificenza. La disoccupazione di allora e del
momento riassunta in quella terzina finale che esprime il dramma di mille
braccia senza lavoro e di migliaia di bocche senza pane.
2) Er ferraro. Il lavoro che produce per sfamare una famiglia in
contrapposizione con la rendita (da capitale) che si realizza stando seduti e
mettendo una firma, oggi premendo un tasto.
3) Er decoro della medicina. La salute in mano a chi dovrebbe curare,
secondo scienza e coscienza, incurante delle gerarchie e delle caste che
vengono a crearsi negli ospedali.
4) La vedova co sette fiji. La scuola dove vengono indirizzati i figli di una
povera donna a cui preme la loro educazione e il loro futuro, mentre lei
pazientemente aspetta che la Madonna la possa chiamare a se.
5) Le gabelle. Le tasse, un peso che grava non solo su chi possiede beni al
sole, ma anche e soprattutto a chi indirettamente le paga sui consumi
alimentari, sui vestiti, sulla illuminazione, sugli affitti, sui mobili di casa e
sugli attrezzi da lavoro.
6) Er deserto. L’ambiente che va tutelato e difeso affinché ciò che ci
circonda non diventi un luogo desolato, dove perfino i morti vengono
abbandonati al loro destino.
7) Er fugone de la Sagra Famija. Emigrazione argomento oggi molto
scottante che ha radici antiche quando la Famiglia di Nazareth dovette
emigrare in Egitto per sfuggire ad una strage ordinata da un Re (oggi un
Presidente dittatore) che aveva paura di perdere il proprio potere.
8) Er povero ladro. La giustizia che spesso è cieca e non sa leggere nel cuore
e nelle intenzioni di chi commette piccoli reati. Quella stessa giustizia,
lenta e arzigogolata, che si risolve con la prescrizione che manda tutti
assolti.
9) Le bestie der Paradiso terrestre. La libertà di parola, indice di democrazia
e di rispetto delle idee altrui che in un immaginario paradiso terrestre
veniva praticata degli animali prima dell’arrivo di Adamo, che volendo
comandare, la tolse agli altri.
10)Er luogotenente. La condizione femminile, fatta oggetto di soprusi da parte
del potere (nella fattispecie un Commissario di Polizia papalino) viene
rivendicata da una donna coraggiosa e piena di dignità.
11) L’angeli ribelli. La sicurezza contro le ribellioni e contro la criminalità
comune che fa invocare dai cittadini più presenza delle forse dell’ordine
sul territorio, per sfociare magari nella costituzione delle ronde fatta “dalle
persone del posto”.
12) La bona famija. La povertà nell’abito famigliare dove manca
l’abbondanza del cibo e si attende il ritorno del capo famiglia per
approntare la cena con frittata e quattro noci. La povertà compensata dalla
serenità di chi “in santa pace se ne va a letto”-
Nota 1 – Giuditta Tavani Arquati (1830-1867) si sposò giovanissima a quattordici anni e
insieme a suo marito combatté per la difesa della Repubblica Romana nel 1849. Dovette
abbandonare Roma e si rifugiò, seguendo Garibaldi a Venezia, rientrando a Roma solo
nel 1865 per preparare una sommossa che far insorgere Roma contro il governo di Pio IX.
Il 25 ottobre del 1867 i congiurati si erano riuniti nel lanificio Ajani in Trastevere, dove
furono attaccati dagli zuavi. Insieme ad altre 9 persone, tra cui il marito ed un loro figlio
fu uccisa mentre era incinta del quarto figlio. Presto divenne il simbolo della lotta per la
liberazione di Roma e per anni fu ricordata dalle associazioni laiche e repubblicane.
MANLIO BALEANI