Perché il Jobs Act potrebbe non funzionare
Il Senato, dopo una bagarre indegna, dopo scontri verbali pesanti e l’apposizione della fiducia da parte dell’esecutivo, ha approvato la legge delega sul lavoro denominata Jobs Act. Ribadiamo è stata approvata una legge delega, non un decreto legislativo o altro, quindi il provvedimento dovrà superare la votazione alla Camera dei Deputati dove non è escluso un identico percorso ad ostacoli viste le evidenti contrarietà di una parte del Pd, del M5s, della Lega e l’astensione probabile di FI. Il nodo vero è però un altro, ed è rappresentato dall’efficacia del Jobs Act come strumento per combattere la disoccupazione, più in generale per sburocratizzare il mercato del lavoro. Ma il mercato del lavoro c’è? La domanda non è retorica. L’Europa plaude all’approvazione della riforma e la ritiene utile per rimuovere gli ostacoli sul percorso dell’avviamento al lavoro, ma la stessa Europa e per essa innanzitutto la Germania frena ogni ipotesi di lavoro in ordine alla moneta o al bilancio, finalizzata a far ripartire il tasso di crescita con la conseguenza logica di facilitare il riequilibro contabile dei Paesi a rischio. E’ evidente come la crisi greca e l’attendismo “dell’Europa” non abbia insegnato nulla, tanto è vero che in tutta Europa il tema centrale del rilancio delle economie più deboli con percentuali di crescita anche negativi, non è una priorità, rispetto alle esigenze, sicuramente ineludibili, delle riforme. Nessuno nega l’urgenza per il nostro paese di intervenire, se non fosse già troppo tardi sulla spesa pubblica, sulla lotta alla corruzione, all’evasione/elusione fiscale, sulla lentezza della giustizia, sul mercato del lavoro, sulla burocrazia, sulle spese improduttive di comuni piccoli e grandi, ma tra tutte le novità annunciate, il Jobs Act approvato da poco al Senato non sarà sufficiente a far ripartire le assunzioni e diminuire le percentuali da brivido della disoccupazione, in particolare quella giovanile. Perché? Perché il mercato resta scettico, debole, scarsamente competitivo e quindi quali imprese dovrebbero, pur con tutte le facilitazioni possibili prendersi in carico dei lavoratori seppure con salari bassi e incentivi? Per poter riassorbire percentuali credibili di disoccupati non basteranno tassi di crescita fino al 2%, serve altro e di più pesante, sul fronte monetario e creditizio, una seria ed efficace politica degli investimenti pubblici (sempre bloccati per cavilli, vedi Genova o la Toscana), ma in fondo urge una riproposizione della domanda, senza la quale tutto è vano. Tutto questo è noto al nostro esecutivo e al premier, che sembra voglia provare a forzare la mano a Berlino, con l’aiuto della Francia, ci riuscisse, unito al probabile piano di investimenti da 300 miliardi della commissione Juncker potrebbe rappresentare la svolta positiva per invertire la tendenza negativa in economia e sul lavoro.
ARES