Infolampo: Stalking – lavoro
Stalking: inaccettabile solo il risarcimento
Cgil, Cisl e Uil: “Intollerabile includere il reato tra quelli estinguibili pagando. Bisogna escluderlo dal
nuovo articolo 162 e renderlo non monetizzabile”. I sindacati criticano la politica, che non presta la
dovuta attenzione alla violenza sulle donne
È inaccettabile includere lo stalking tra i reati, che possono essere estinti solo con un risarcimento. Questa
la posizione espressa oggi dai sindacati. “La denuncia lanciata dai sindacati in merito allo stalking, di
fatto in parte depenalizzato dalla riforma del processo penale, non è una bufala, tantomeno un ‘procurato
allarme’, come qualcuno improvvidamente ha scritto.
Ma evidenzia la necessità di una maggiore cura e
attenzione nel formulare norme che attengono alla sfera
della tutela delle donne vittime di stalking”. Lo
affermano, in una nota congiunta, Loredana Taddei,
responsabile nazionale delle Politiche di genere della
Cgil, Liliana Ocmin, responsabile del coordinamento
nazionale donne Cisl e Alessandra Menelao,
responsabile nazionale dei centri di ascolto della Uil.
“È un fatto innegabile – proseguono – che con il nuovo
articolo 162 introdotto dalla recente riforma della
giustizia sarà possibile estinguere i reati perseguibili a
querela con le condotte riparatorie, con un
risarcimento”. Per le dirigenti sindacali “è grave che tra
questi reati, poiché non è stato espressamente escluso
dal ‘calderone’ di quelli che si possono rimettere, sia di fatto compreso anche lo stalking”.
Per Taddei, Ocmin e Menelao è quindi necessario “che il reato, nella parte in cui prevede la remissione
della querela, venga espressamente escluso dalla 162 ter, e soprattutto che non sia monetizzabile”. Il
danno che produce anche sul versante culturale è enorme, e “porta alla sottovalutazione dei segnali di
stalking cosiddetti ‘meno gravi’, ma che per il loro potenziale meno gravi non sono, e che se perseguiti
possono impedire l’escalation della violenza, vero nodo del fenomeno dello stalking”.
Nello scenario attuale il mondo della politica non sembra particolarmente sensibile. “È inaccettabile –
concludono le responsabili di Cgil, Cisl e Uil – che la politica non presti l’attenzione dovuta a temi come
quello della violenza contro le donne, ormai ogni giorno al centro dei fatti di cronaca”.
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Un lavoro povero è davvero ‘meglio di niente’?
Si sta affermando un nuovo genere di disoccupati, non più coloro che sono privi di un lavoro, ma sempre
più coloro che pur lavorando non accedono a un reddito sufficiente
di Elena Monticelli, Marco Marrone
Mentre riscoppia nuovamente “la questione voucher” nel nostro paese e mentre il caso dei cosiddetti
‘scontrinisti’ della Biblioteca Nazionale di Roma è stato per giorni su tutti i giornali e le trasmissioni
televisive, come esempio emblematico di lavoro povero, contemporaneamente, con la precipitazione del
clima elettorale, il dibattito “reddito sì reddito no” ha raggiunto una polarizzazione in Italia che negli
ultimi anni sembrava essersi affievolita, grazie al proliferare di campagne e proposte di legge in materia.
La propaganda del M5S, caratterizzata da un approccio “proprietario” del tema del reddito di cittadinanza
(nonostante nei fatti la loro proposta di legge riguardi una forma di reddito minimo, dove il termine
cittadinanza viene evocato sulla scia del ‘prima gli italiani’), ha determinato un irrigidimento da parte
degli altri soggetti politici, addirittura si è utilizzato il discorso del Papa per aprire le prime pagine delle
più grosse testate giornalistiche proprio contro il tema del reddito.
Pertanto il pericoloso paradigma che sembra pian piano affermarsi, pare essere: “contro l’aumento della
disoccupazione no al reddito di cittadinanza sì alla piena occupazione, sì a proposte come il lavoro di
cittadinanza”. Ma siamo davvero convinti che le posizioni possano essere ancora così nette? Davvero c’è
bisogno, ancora una volta, di riaprire una discussione fondata sulla contrapposizione tra redditisti e
lavoristi?
Se così fosse allora avrebbe senso, provare a porre la domanda da un altro punto di vista: è,
indistintamente, tutto il lavoro ad essere veicolo di cittadinanza? In che modo il reddito non si
contrappone al salario, ma anzi, consente di liberare energie e conflittualità per un suo miglioramento?
Infine, in che modo il reddito può ribaltare tendenze di lungo periodo che hanno caratterizzato il
fallimento delle politiche del lavoro in Italia?
Alla domanda “che lavoro stiamo producendo?” hanno provato a rispondere in tanti (si segnalano, per
esempio, questo articolo di Roberto Ciccarelli o questo di Francesca Coin) che mostrano come siamo di
fronte ad un vero e proprio processo di sostituzione di lavoro contrattualizzato, salariato e tutelato con
forme di lavoro povero, mal pagato o gratuito. È evidente come questo processo sia il frutto a sua volta
delle trasformazioni del lavoro in Italia e di un uso capitalistico della crisi.
Pensare l’impatto di una delle più lunghe crisi della storia soltanto come recessione e come distruzione di
posti di lavoro è riduttivo e pone il rischio di non riuscire a cogliere la reale intensità dei suoi effetti.
Senza negare questo aspetto, è necessario integrarlo anche con una lettura delle trasformazioni delle
forme con cui le prestazioni lavorative vengono regolate. Come emerge nella tabella 1, che raccoglie le
variazioni delle tipologie di impiego dal 2008, anno di inizio della crisi, al 2015, ultimo anno in cui sono
disponibili tutti i dati, possiamo vedere come la flessione di oltre 2 milioni di lavoratori con un contratto
subordinato a tempo indeterminato non è l’unico dato a segnare variazioni significative. Quello del tempo
indeterminato è infatti l’unica tipologia che nel corso di questi anni si è trovata a diminuire, mentre tutte
le altre tipologie contrattuali mostrano decisi tassi di crescita. Abbiamo infatti, oltre alla crescita di circa 1
milione di occupati a tempo determinato, la crescita dei tirocini che in appena tre anni quasi raddoppiano
passando dai circa 180 mila del 2008 ai quasi 350 mila del 2015. Clamorosa e già tristemente nota è
l’esplosione dei voucher, che passano dai 28 mila prestatori nel 2008 ai quasi 1 milione e mezzo del 2015,
complice non solo la spinta della crisi, ma anche la scelta di governi di destra e di sinistra di estendere
progressivamente il dispositivo del lavoro accessorio all’interno del mercato del lavoro. A crescere,
infine, sono anche i lavoratori autonomi, un settore sul quale viene esercitata una pressione non solo da
parte delle trasformazioni del lavoro in corso da oltre 20 anni – fotografata ai suoi esordi dal ‘lavoro
autonomo di seconda generazione’ (Bologna & Fumagalli, 1997) nel 1997 – ma anche da parte di
fenomeni come la gig economy, che, come affermato dallo studio rilasciato da McKinsey lo scorso
autunno, contribuiscono ad incrementare il dato del lavoro autonomo trasversalmente in tutti i paesi
occidentali.
La domanda che sorge spontanea a questo punto è: esiste un filo rosso che attraversa queste forme di
impiego? Vi è una logica rintracciabile in ognuno di questi istituti in grado di spiegare perché i datori di
lavoro nostrani guardano a queste forme di impiego con sempre maggiore interesse?
Sicuramente, una delle ragioni ha a che fare con la riduzione del costo del lavoro, sia per quanto riguarda
istituti quali i tirocini, dove la sovrapposizione tra le attività lavorative svolte dai tirocinanti e l’obiettivo
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