Infolampo: Previdenza – capitalismo
Dopo l’incontro “interlocutorio” del 4 luglio, prosegue a Roma il confronto tra governo e sindacati sulla
“fase 2” della previdenza. Stop all’innalzamento automatico dell’età pensionabile e interventi per giovani
e donne: queste le richieste dei sindacati
Nuovo incontro oggi (martedì 11 luglio) a Roma, presso il ministero del Lavoro, tra governo e sindacati
sulla “fase 2” della previdenza. Il confronto segue quello di martedì 4 luglio scorso, definito
“interlocutorio” dai sindacati, e anticipa gli Attivi
nazionali unitari di Cgil, Cisl e Uil previsti per
giovedì 13. Il vertice di oggi dovrebbe servire ad
approfondire ulteriormente le questioni poste la
settimana scorsa dalle organizzazioni dei lavoratori:
conclusa questa parte conoscitiva, si attendono dal
governo proposte concrete (anche dal punto di vista
finanziario) da poter poi discutere al tavolo sindacale.
Il primo obiettivo di Cgil, Cisl e Uil è interrompere
l’innalzamento automatico dell’età pensionabile,
previsto dalla riforma del 2011 per adeguarla alla
speranza di vita. Nell’audizione di mercoledì 5 luglio alla Commissione Affari costituzionali della
Camera, il presidente dell’Istat Giorgio Alleva ha detto che nel 2019 si passerà a 67 anni (dai 66 anni e
sette mesi del 2018), con uno scatto di cinque mesi in avanti. Altri tre mesi verranno aggiunto nel 2021,
mentre dal 2023 si prevede un incremento di due mesi alla volta: l’età pensionabile sarà di 68 anni e 1
mese nel 2031, di 68 anni e 11 mesi nel 2041 e di 69 anni e 9 mesi nel 2051. La progressione è
fortemente contestata dai sindacati che attendono entro breve una risposta del governo: il primo aumento,
quello a 67 anni, dovrà essere autorizzato con un decreto interministeriale da emanarsi entro il 1° gennaio
2018.
La Cgil tornerà anche a insistere, spiegano il segretario confederale Roberto Ghiselli e il coordinatore
Area welfare Nicola Marongiu, sulla necessità di “una verifica riguardo la gestione dell’ottava
salvaguardia (che consente a determinate categorie di andare in pensione con le vecchie regole, vigenti
sino al dicembre 2011, ndr) e di opzione donna (la possibilità per le donne di andare in pensione prima,
ndr), evidenziando l’esigenza di un ulteriore intervento per gestire le ultime situazioni aperte, tenendo
conto che le risorse utilizzate sono state notevolmente inferiori a quelle preventivate”.
Ma ancora molte sono le questioni da affrontare: la definizione di una “pensione contributiva di garanzia”
per i giovani, la copertura contributiva per chi ha svolto un lavoro di cura per familiari anziani o disabili,
il rafforzamento della flessibilità nell’accesso al pensionamento nel contributivo, lo sviluppo della
previdenza complementare (con la conseguente adozione di misure che favoriscano gli investimenti dei
fondi nell’economia reale), la rivalutazione delle pensioni attuali (la proposta Cgil è “di adottare
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Donne, ombrelli e multe: brutto clima
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Il capitalismo è morto per overdose perché ha avuto
troppo successo
La diagnosi spietata di Wolfgang Streeck, direttore del Max-Planck Institut di Colonia: «La crisi attuale
non è un fenomeno accidentale, ma il culmine di una lunga serie di disordini politici ed economici che
indicano la dissoluzione di quella formazione sociale che definiamo capitalismo democratico»
di Giuliano Battiston
«Il capitalismo sta morendo per overdose da sé stesso». È la tesi del sociologo Wolfgang Streeck,
direttore del Max-Planck Institut di Colonia, tra i più autorevoli centri di ricerca in Europa. Nel suo
ultimo libro, “How Will Capitalism End? Essays on a Failing System” (Verso book), Streeck conduce
una diagnosi spietata sulle patologie del capitalismo democratico, quella particolare formazione sociale
che, nel dopoguerra, aveva allineato democrazia e capitalismo intorno a un patto sociale che gli conferiva
legittimità. Dagli anni Settanta, con la fine della crescita economica e, poi, con l’avanzare della
rivoluzione neoliberista, quel patto sociale viene meno. Il capitale avanza, la democrazia indietreggia.
Saltano i vincoli politici e istituzionali che avevano trattenuto «gli spiriti animali» del capitalismo. Che
vince, ma vince troppo. Oggi, a rivoluzione compiuta, il capitalismo è in rovina «perché ha avuto troppo
successo», spiega Wolfgang Streeck a l’Espresso.
Il sentimento anti-establishment è alimentato, in Occidente, da disuguaglianze sociali sempre maggiori.
Ma la contestazione offre l’opportunità di cambiare. Riformando il sistema finanziario e facendo rispettare
le regole dei trattati commerciali
Professor Streeck, per comprendere la crisi finanziaria scoppiata nel 2008 lei ha scelto di enfatizzare «le
continuità storiche» del capitalismo, rintracciando una lunga «traiettoria di crisi» iniziata negli anni
Settanta del secolo scorso. Perché questa scelta?
«Perché la crisi attuale non è un fenomeno accidentale, ma il culmine di una lunga serie di disordini
politici ed economici che indicano la dissoluzione di quella formazione sociale che definiamo capitalismo
democratico. La traiettoria di crisi corrisponde al processo con cui il capitalismo si è liberato dalle catene,
fragili, che gli erano state imposte dopo la seconda guerra mondiale. Indica la trasformazione
dell’economia capitalistica dal keynesismo del dopoguerra a una formula politica opposta, di stampo neo-
hayekiano, che punta alla crescita attraverso la redistribuzione dal basso all’alto, non più dall’alto al
basso. È una transizione che produce una democrazia addomesticata dai mercati, ribaltando quel patto
sociale post-bellico che vedeva i mercati addomesticati dalla democrazia. Considerata produttiva nel
keynesismo, la democrazia egualitaria diventa un ostacolo all’efficienza».
Secondo la sua analisi, con il «crollo nel 2008 del keynesismo privatizzato» la crisi del capitalismo
democratico sarebbe entrata nella sua «quarta e ultima fase». Quali sono le fasi che ci hanno condotto fin
qui?
«Il capitalismo democratico del dopoguerra aveva trovato un equilibrio, instabile, tra gli interessi del
capitale e dei cittadini. Dagli anni Settanta, venuta meno la crescita, i conflitti distributivi tra capitale e
lavoro vengono affrontati con espedienti politici diversi, per creare l’illusione di una crescita inclusiva.
Usati per guadagnare tempo, inflazione, debito pubblico e debito privato diventano però problemi di per
sé, segnando tre crisi. La prima, negli anni Settanta, è quella dell’inflazione globale, a cui segue
l’esplosione del debito pubblico negli anni Ottanta e la crescita dell’indebitamento privato nel decennio
successivo, culminata nell’ultima fase, con il collasso dei mercati finanziari nel 2008. Da quattro decenni,
lo squilibrio è la normalità. La crisi è dell’economia, ma anche del capitalismo come ordine sociale. Nei
Paesi ricchi sono i tre sintomi principali, di lungo termine: il declino della crescita economica, l’aumento
dell’indebitamento e la crescente disuguaglianza. A cui si aggiungono cinque disordini sistemici: la
stagnazione, la redistribuzione oligarchica, il saccheggio del dominio pubblico, la corruzione e l’anarchia
globale»
Per lei, queste crisi e trasformazioni non sono funzionali a un nuovo equilibrio sistemico, ma indicano un
processo di «decadenza graduale ma inesorabile»: la fine del capitalismo. Se è vero che sin dall’Ottocento
“le teorie sul capitalismosono anche teorie sulla sua fine”, perché dovrebbe essere diverso, questa volta?
«Il fatto che il capitalismo sia riuscito a sopravvivere alle teorie sulla sua fine non significa che sarà in
grado di farlo sempre. La sua sopravvivenza è sempre dipesa da un costante lavoro di riparazioni. Ma
oggi le tradizionali forze di stabilizzazione non possono più neutralizzarne la sindrome da debolezza
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perche-ha-avuto-troppo-successo-1.305687