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Il Belgio ventre molle dell’Europa

3e62df4d439428d1d98c27921e20224f-kO1E-U1070699604331PXB-1024x576@LaStampa_itI “trascorsi islamici” del Belgio

Alcuni precedenti nella storia del Belgio ne facevano già uno stato vulnerabile a rischio attentati, vediamo perché.

Nel 1974, il governo belga riconobbe ufficialmente la religione islamica. Fu il primo paese europeo. Il risultato immediato, nel 1975, fu l’inserimento della religione islamica nel curriculum scolastico. “Fu una decisione del re belga Baldovino”, dice al Foglio Michael Privot, massimo islamologo belga e direttore dell’Enar, l’European Network Against Racism. Baldovino, il “re triste”, cattolico e austero, “aveva stabilito buoni legami con la monarchia saudita e il re Faisal”. Questo riconoscimento avvenne nel mezzo della crisi petrolifera, perché il Belgio cercava rifornimenti dall’Arabia Saudita. Nel 1974, i musulmani in Belgio erano alla prima generazione, lavoravano nelle miniere e volevano spazi per pregare nelle moschee. Allora non c’era autorità religiosa in Belgio. Il re Baldovino offrì ai sauditi il Pavillon du Cinquantenaire con un affitto della durata di 99 anni. L’edificio sorge a duecento metri dal Palazzo Schuman e dal quartier generale dell’Unione europea; l’Arabia Saudita lo trasformò nella Grande Moschea del Cinquecentenario, diventando l’autorità islamica de facto del Belgio.

Il 1973 è l’anno della guerra del Kippur e del primo grande shock petrolifero: sommersi dai petrodollari i sauditi costituiscono una sorta di impero della carità e della beneficenza in tutto il mondo musulmano, lanciandosi con sussidi e aiuti materiali in un’opera di proselitismo internazionale per guadagnare adepti a una delle versioni più puritane dell’Islam. La monarchia saudita, sotto la guida di re Fahd somparso nel 2005, con i proventi del petrolio e degli investimenti sulle piazze finanziarie mondiali ha costituito un sistema bancario destinato ai Paesi emergenti che si rendevano permeabili all’indottrinamento. Nel ’73 viene fondata la Banca islamica di sviluppo, in cui i sauditi detengono la quota del 25%; poi, per rendere ancora più opaca la finanza islamica, sono state create altre agenzie come il Fondo dell’Opec (30% saudita) e la Banca Araba per lo sviluppo, la Dar al Mal al Islami e la Al Baraka.

Con i petrodollari sauditi nasce anche, dal Golfo, all’Asia centrale, al Maghreb, una nuova borghesia arabo musulmana. Un impatto sociale ed economico dirompente è esercitato dalla grandi migrazioni verso il Golfo del petrolio. Nei primi anni gli emigranti sfoltiscono le schiere dei disoccupati e mandano i soldi a casa, costituendo con le rimesse una delle voci più importanti di economie come quella egiziana o pakistana, poi tornano in patria dall’eldorado del petrolio con il portafoglio gonfio e nuove idee sull’Islam. Nasce così una nuova borghesia islamica sempre meno ancorata ai princìpi nazionalisti: l’ideale politico sociale è quello della umma, la comunità dei musulmani. Influenzati da un ambiente islamico conservatore e fondamentalista, cui attribuiscono la causa spirituale della nuova ricchezza, gli ex emigrati professano zelanti una religiosità alla saudita, che in alcuni Paesi, come il Pakistan, farà da battistrada ai talebani e in Egitto e nel Maghreb ai movimenti integralisti. Con i fondi sauditi sorgono nuove moschee e scuole coraniche, caratterizzate dalla profusione dei marmi e dal neon verde, il colore dell’islam, che punteggiano il panorama urbano dei quartieri residenziali di Islambad o di Casablanca, del Cairo o di Istanbul.

Sono queste moschee tutte uguali, edificate con i petrodollari che rompendo con le tradizioni locali fanno della dottrina puritana saudita uno standard da seguire. Si può dire dunque che l’influenza della monarchia saudita, da tempo dietro molta parte del terrorismo islamista, sull’Islam in Belgio abbia reso più facile una radicalizzazione da parte delle nuove generazioni di giovani che non sono più immigrati, ma cittadini europei, di seconda o addirittura terza generazione.

Tre anni fa, documenti di WikiLeaks hanno rivelato tensioni fra il Belgio e l’Arabia Saudita. Bruxelles era molto preoccupata per il fondamentalismo islamico diffuso dalla Grande Moschea. Le autorità belghe ottennero così la testa del direttore, Khalid Alabri, un diplomatico saudita. Una scelta, quella fatta dal Belgio quarant’anni fa, criticata oggi anche dal ministro francofono belga Rachid Madrane, musulmano, che al giornale La Libre ha detto: “Il peccato originale del Belgio consiste nell’aver consegnato le chiavi dell’islam nel 1973 all’Arabia Saudita per assicurarci l’approvvigionamento energetico”. Sono tante le propaggini saudite a Bruxelles (Il Foglio, 22 marzo). Adesso glielo rinfacciano pure. Da sottolineare che il Belgio, in proporzione al numero di abitanti, ha il più alto numero di foreign fighters partiti per il Medio Oriente e quindi non si può escludere nemmeno un fenomeno di ritorno, da valutare in relazione anche alla situazione del fronte siro-iracheno, con Isis che potrebbe optare per una diffusione della sua presenza anziché una concentrazione sul fronte mediorientale, man mano che in quel contesto aumentano le difficoltà.

Com’è stato possibile che Maaseik, la città di Van Eyck e Rubens e del cristianesimo belga, sia diventata allora una centrale del terrorismo islamico in tutta Europa e oggi una delle città con più reclutamenti per la guerra santa in Siria e Iraq? Lo chiamano “Belgistan”, è la triste evoluzione di un paese agiato, annoiato e scettico che non è mai riuscito a sostituire altri ideali a quelli tramontati dell’impero. Eppure, parlate con un belga: vi darà la sensazione di un uomo soddisfatto. La questione sociale? Sotto controllo. La vita famigliare? Decente. Le distrazioni alle fatiche quotidiane? Abbondano. Paura della guerra? Nessuno ci pensa. E’ la gaia incoscienza del Belgio, caratteristica del borghese confortato da una sorte propizia. Un mondo di caffè, di teatri, di circoli municipali, di fanfare operaie, di vini cordiali, di lavoro per tutti, di conversazioni argute, di carillons, di librerie, di cooperative prosperose, ricco di umore meridionale (i belgi sono i meridionali del nord).

Il Belgio, oltre a detenere il record di jihadisti in Europa, è oggi il primo paese europeo per tasso di suicidi. Sono i suoi fiori del male. Il più noto suicida è il premio Nobel per la Medicina, Christian de Duve, che si è ucciso due anni fa tramite iniezione letale in un surreale, ultimo incontro con i suoi quattro figli. Sei suicidi al giorno. Duemila all’anno. Con un tasso di suicidio stimato a più di venti ogni 100 mila abitanti, il Belgio batte tutti i record in Europa occidentale (la media mondiale è di 14,5 per 100 mila abitanti). Il suicidio è la prima causa di mortalità tra i belgi che hanno tra i 25 e i 44 anni e la seconda causa, dopo gli incidenti automobilistici, fra quanti ne hanno tra i 15 e i 24. Una gioventù bella ma malata. I giovani belgi, afferma con desolazione il quotidiano Libre Belgique, “soffrono la vita”.

Un paese dominato dal nichilismo, dove l’islam è già oggi la prima religione del paese. Nelle scuole di Bruxelles l’insegnamento della religione musulmana ha superato per numero di studenti quello della religione cattolica. Lo dice il Centro di ricerca e informazione sociopolitica: secondo l’indagine, fra i ragazzi degli istituti primari, nell’ora di religione per scelta delle famiglie il 43 per cento studia l’islam (una quota che si attesta al 41,4 nei licei); il 27,9 per cento segue corsi di “morale laica” (ateismo), e solo il 23,3 per cento ha optato per la fede cattolica. Già oggi, a Bruxelles un cittadino su tre è musulmano, e il nome più frequente all’anagrafe fra i nuovi residenti è Mohammed. Nel 2035 la città sarà a maggioranza musulmana. I grandi momenti della vita, come battesimi, matrimoni e funerali, in Belgio non sono più legati alla cristianità, in un paese i cui simboli sono stati a lungo l’Adorazione dell’agnello di Van Eyck, la Madonna di Bruges di Michelangelo, i quadri di Bruegel, Memling, Van der Weyde, la cattedrale di Anversa, il cane di Sant’Uberto e l’università di Lovanio (fondata da Papa Martino V). A Bruxelles oggi soltanto sette matrimoni su cento sono cattolici, i bambini battezzati sono solo il 14,8 per cento e i funerali cattolici si fermano al 22,6 per cento.

“E’ la fine del cattolicesimo sociologico”, dice uno studio del Crisp citato dal quotidiano Le Soir. Di recente, le autorità belghe hanno deciso che le feste cardine della cultura europea e cristiana, come Ognissanti, Natale e la Pasqua, dovevano essere sostituite dalle più neutre “Vacanze d’autunno”, “Vacanze d’inverno” e “Vacanze di primavera”. Un solstizio laicista. E due anni fa ha debuttato il nuovo albero di Natale secolarizzato, simbolo di un paese trasparente, senz’anima. Non più l’abete delle foreste delle Ardenne, ma un Xmas Tree di acciaio, luci e proiezioni video. Fu nel 1986 che avvenne la svolta, quando per la prima volta l’antica università cattolica di Lovanio nominò un rettore ateo. Fondata nel 1425 per iniziativa del duca Giovanni IV di Brabante, autorizzato da una bolla pontificia di Martino V, l’ateneo era sempre stato un centro di cultura umanistica e un caposaldo nella lotta contro la Riforma luterana. Oggi produce alcune delle idee più progressiste d’Europa. Fu lì che si riunirono i capi della riforma cattolica, il tedesco Karl Rahner, il belga Edward Schillebeeck, padre del “nuovo catechismo olandese”, i francesi Yves Marie Congar e Marie Dominique Chenu, lo statunitense Gregory Baum, severo critico dell’enciclica Humanae vitae e lo svizzero-tedesco Hans Küng, teorico della fallibilità papale. Oggi Lovanio offre il primo corso di laurea in Teologia islamica in Europa.

Di pari passo, infatti, il Belgio adottava la forma più radicale di multiculturalismo che l’Europa abbia mai conosciuto. Nel 1974, il governo belga riconobbe ufficialmente la religione islamica. Il primo risultato di questo riconoscimento fu l’approvazione, nel 1975, dell’inserimento della religione islamica nel curriculum scolastico. I musulmani in Belgio sono al 75 per cento praticanti. “Una gioventù radicalizzata, che rifiuta i valori occidentali”, scrive la giornalista fiamminga Hind Fraihi: “A Bruxelles, ci sono isole come Molenbeek, dove si fatica a credere di essere in Belgio”. Il proselitismo intanto straripa. Il numero totale dei belgi convertiti all’islam è stimato in 20 mila. Nei tribunali, la sharia interferisce insidiosamente nei giudizi dei magistrati e ad Anversa è nata la prima corte che legifera con la legge islamica. Le scuole pubbliche distribuiscono anche pasti halal.

Negli ultimi anni in molti quartieri di Bruxelles sono scomparse le donne e ricomparsi i veli integrali. I mercati sono in mano alla comunità musulmana e in molti quartieri non esistono più macellerie con costolette di maiale. Ad Anderlecht, un comune brussellese ad alta densità islamica ma anche con un’importante comunità ebraica, non si contano più gli atti di antisemitismo e gli ebrei stanno fuggendo dal paese dopo la strage al Museo ebraico della capitale di un anno fa. Gli alloctoni illuminati come Mimount Bousakla – politica di origine marocchina che attacca il dogma del multiculturalismo – sono minacciati di morte dai fondamentalisti islamici. A due passi dalle istituzioni europee, gli imam predicano contro Bruxelles, “capitale degli infedeli”. Molte chiese, appena macchiate da qualche incrostazione della controriforma spagnola, sono rimaste esteriormente uguali. Ma dentro sono diventate delle moschee, come la Signora del Perpetuo Soccorso. In una chiesa di Bruges è conservato il “Sangue Santo”, che un conte di Fiandra riportò dalla Palestina dopo una crociata. Ma il prodigio della liquefazione, dicono le guide, non avviene più da parecchi secoli. Si è seccato. Brutto segno.

Beneficenza all’ISIS?

Secondo l’Illicit Transaction Group, un task force della Cia che ha presentato un rapporto anche all’Onu, negli ultimi dieci anni i gruppi della Jihad avrebbero ricevuto finanziamenti tra i 300 e i 500 milioni di dollari da enti di beneficenza e donatori privati in gran parte sauditi. Alla metà degli anni 90 la Lega Mondiale dei musulmani e l’Assistenza Islamica ( International Islamic Relief) finanziavano da tempo i campi di addestramento in Afghanistan e Pakistan, il regime dei Talebani, i mujaheddin della Bosnia, la resistenza cecena, il fronte islamico nelle Filippine. Il segretario dell’Islamic Relief è Muhammad Jamil Khalifa, uno dei cognati di Osama Bin Laden, ma questa non può essere una sorpresa: la Lega Mondiale di musulmani e l’Assistenza Islamica agiscono sotto l’egida del gran muftì saudita, sono foraggiate dal Governo e dai membri della famiglia reale, operano attraverso gli uffici delle ambasciate saudite.

Durante la guerra afgana il responsabile di Peshawar della Lega era Abdullah Azzam, lo sceicco palestinese che ha forgiato ideologicamente Bin Laden. Le autorità americane ogni tanto congelano i conti di qualche organizzazione islamica, ma in realtà sia Washington sia le altre capitali occidentali hanno evitato di accanirsi nei confronti dei sauditi, per un motivo molto semplice: sul mercato americano, tra banche e Wall Street, gli investimenti sauditi ammontano ad almeno 600 miliardi di dollari. È dai tempi di Roosvelt che l’Arabia vende agli Stati Uniti petrolio con lo sconto sulle quotazioni internazionali correnti, i legami economici e politici sono stretti, di alto livello, come dimostra anche il caso del Carlyle Group, dove la famiglia Bin Laden era partner dei Bush e dei Baker. La « santa alleanza ».

Sarebbe naturalmente una semplificazione e in molti casi scorretto costruire una relazione lineare di causa effetto tra l’Arabia saudita, la sua propaganda islamica e gli attentati kamikaze: i soldi della Jihad non provengono soltanto dalle grandi istituzioni di beneficenza come quelle saudite. Questo è uno degli aspetti della ” santa alleanza” tra mercanti, mullah e militanti: c’è una finanza apparentemente minore, fuori dalle regole, il denaro si muove con trasferimenti di valuta informali, cioè in nero, e in Occidente trova il suo moltiplicatore nelle attività legali o in grigio delle comunità musulmane all’estero. Decine di milioni di persone, dentro e fuori il Dar al Islam, la Casa dell’Islam, costituiscono spazi offshore, con circuiti economici paralleli che sfuggono alle statistiche. Strutture familiari e di clan da sempre trasferiscono denaro senza muoverlo dai Paesi d’origine. È il sistema della Hawala (“fiducia” in hindi): si deposita il denaro in un luogo e lo si recupera in un altro, ricorrendo a un mediatore, il proprietario del capitale, che attraverso i corrispondenti locali sottrae soldi da una parte e li aggiunge in un’altra.

Chi utilizza il servizio paga una commissione: il denaro viaggia senza passare dalle banche, con un sistema che non prevede ricevute o libri contabili. Un’economia « informale » . L’ “offshore dei poveri” muove miliardi; ma per la Jihad sono importanti anche le connessioni con le roccaforti dell’economia informale. Negli anni 90 l’Afghanistan grazie ai narcodollari e al contrabbando era salito al secondo posto tra i partner commerciali di Dubai. Passati quattro anni dalla caduta dei Talebani sappiamo che gli aiuti internazionali destinati a Kabul sono largamente superati dai proventi del papavero che alimentano l’economia di confine con il Pakistan. Il mezzo principale che continua a foraggiare le organizzazioni della Jihad resta comunque la zakat, il terzo dei cinque pilastri dell’Islam, che significa “purificazione” e indica i versamenti caritatevoli, nella misura del 2,5% del valore di patrimoni e proprietà. Si tratta di miliardi di dollari destinati ai più poveri e a quelli che lottano per il credo del Profeta: un polmone finanziario che ha fatto lievitare con la “tassa della carità” organizzazioni umanitarie e di assistenza musulmane. Un’economia della beneficenza, coperta dal segreto sul destinatario finale dei fondi, che da sempre nella umma, la comunità dei musulmani, salda il legame tra mullah, mercanti e combattenti.

Le mille vie della « zakat » , l’obolo del 2,5% da versare ai bisognosi. Una fitta rete di petrodollari e rimesse, elargizioni « umanitarie » e fondi neri.

Il “messianismo” dell’ISIS e differenze con al-Qaeda

Per l’IS siamo alla fine dei tempi, c’è un che di “messianico” nel loro agire e nel loro voler ristabilire ogni aspetto di quanto descritto nel Corano compresa la schiavitù, la tortura contro gli infedeli, le crocefissioni, i matrimoni precoci, la marginalizzazione delle minoranze religiose (cristiani, yazidi). Sono convinti che è arrivato il momento di prepararsi alla guerra contro “Roma”, cioè l’Occidente e che a breve arriverà l’anti-Messia contro cui combattere in attesa che Gesù torni alla Fine dei Tempi. Sì, anche l’Islam crede che Gesù tornerà alla fine della storia dopo la battaglia finale contro Satana. Quindi è probabile che Roma possa essere lasciata come obiettivo finale della strategia stragista messa a punto in Europa. Roma sarà l’apoteosi finale della battaglia simbolica contro il male e contro gli “infedeli”?

La differenza tra ISIS e al-Qaeda è abissale e riassumibile in due aspetti: l’organizzazione e l’interpretazione coranica. Sebbene siano entrambi gruppi estremisti radicali, l’interpretazione del Califfato è ancor più letterale di quanto non fossero i seguaci di Osama bin Laden, nel loro wahabismo. Da un punto di vista organizzativo la differenza è altrettanto abissale e discende dall’interpretazione: non più (o non solo) attacchi in Occidente, ma controllo del territorio in Medio Oriente. Edificare una nazione coranica, laddove al-Qaeda pretendeva per lo più di rovesciare i governi delle monarchie saudite costringendo gli Usa e l’occidente ad andarsene dall’Arabia Saudita considerata luogo santo dell’Islam per la presenza delle città sante de La Mecca e di Medina.

Come spiega Jason Burke su The Guardian vanno evidenziate tre cose:

1) dimostrare che la minaccia jihadista in Europa può diminuire o crescere, ma non scompare solo perché un singolo esponente è stato arrestato (Salah Abdeslam), per quanto attesa fosse la sua cattura;

2) mantenere l’iniziativa. La cosa ha degli aspetti pratici e psicologici. Le agenzie di controterrorismo cercano di ottenere informazioni abbastanza velocemente da poter organizzare dei blitz e neutralizzare i sospetti prima che abbiano il tempo di capire chi di loro è stato catturato e chi potrebbe aver parlato, e ovviamente anche prima che possano pianificare un nuovo attacco. Le reti terroristiche si disgregano facilmente se sottoposte a una simile pressione costante, come è stato mostrato in Iraq a metà del decennio scorso;

3) mostrare di essere ancora in grado di terrorizzare, agire rapidamente e radicalizzare lo scontro grazie alla violenza. Non si tratta tanto di vendetta, ma più semplicemente di dimostrare che la loro capacità di colpire è intatta. Come se volessero dire: siamo stati colpiti, ma ci siamo ancora.

La rete europea dell’ISIS

Sul Corriere della Sera, Guido Olimpio rileva che lo Stato Islamico a Bagdad come a Parigi e Bruxelles è ricorso alla stessa tattica. Ha infiltrato cellule con compiti futuri e ha spedito uomini scelti per mettere insieme dei team e fondare le basi. Sempre in modo fluido e agile, il Califfato si è affidato agli operativi, i facilitatori. Il secondo livello. Alcuni bravi nel falsificare i documenti, altri abili nel confezionare ordigni ma anche a coordinare le mosse. Abdelamid Abaaoud, la mente degli attacchi di Parigi, era uno di loro, e lo era anche Samir Bouzid, ucciso pochi giorni fa in Belgio. Un profilo nel quale troviamo i latitanti Najim Laachraoui, l’artificiere degli attacchi all’aeroporto e alla metropolitana in Belgio e Mohamed Abrini, un’altra delle menti delle stragi di Parigi.

In Europa ci sono non pochi Molenbeek, il quartiere di Bruxelles covo dei jihadisti che hanno messo a ferro e fuoco la capitale belga e prima quella francese: da Malmo, in Svezia al distretto di Kolenkit di Amsterdam per non parlare della miriadi di mini-califfati sorti nelle ‘banlieue’ in Francia e nel Londonistan. Quartieri dove i terroristi possono contare sulla protezione di legami familiari e dell’omertà se non la collaborazione di simpatizzanti della comunità islamica. Ma ecco la mappa della jihad in Europa Paese per Paese: LONDONISTAN: hub del terrore nasce in Gran Bretagna, non a caso chiamata ‘Londonistan’. Una denominazione che va ben oltre la capitale per comprendere quartieri in quasi tutte le città del Regno Unito: da Liverpool e Manchester e Leeds, da Birmingham a Derby, e Bradford, oltre a Derby, Dewsbury, Leicester, Luton, Sheffield, per finire con Waltham Forest a nord di Londra e Tower Hamlets nella parte orientale della capitale. Il padre spirituale del reclutamento jihadista è stato, lo sceicco Omar Bakri, oggi agli arresti in Libano. Di origini siriane, al Bakri, aveva fondato ‘al-Muhajirun’, (‘I Migranti) un collettivo islamico radicale nato in Inghilterra a metà degli anni Novanta. Numerosi adepti di questo colletivo sono divenuti nel tempo importanti personaggi del jihadismo mondiale, in particolare nelle file dell’Isis. FRANCIA: In Francia vengono chiamate ‘Zus’, (Zones urbaines sensibles). Secondo le autorità di Parigi ce ne sono 751 in tutto il paese e ospitano almeno cinque milioni di musulmani. Un’enclave jihadista tipica, secondo l’intelligenece, è Sevran: un comune nel dipartimento della Senna-Saint-Denis, di 50mila abitanti con il 90% degli abitanti di origini straniere.

Poi in Francia cè anche una piccola cittadina che ha la più alta percentuale di foreign fighter del Paese: Lunel, un borgo situato nel dipartimento dell’Herault nella regione della Linguadoca-Rossiglione con un quarto della popolazione immigrata. Da tempo nota per il Moscato e le corse dei tori, Lunel, è passata alle cronache come ‘la fabbrica dell’odio dopo che negli ultimi mesi almeno 20 dei suoi 25 mila abitanti si sono arruolati in Siria, 8 di loro sono morti nei ranghi dell’Isis. Per dare un volto ai fantasmi della Francia è cruciale fare tappa in questo borgo tra Nimes e Montepellier da dove sono partiti uno ogni 100 jihadisti nazionali. BELGIO: Il Belgio ha una lunga lista di zone a rischio. A Bruxelles, dove il 20% della popolazione è di religione musulmana, esiste un intero quartiere – Molenbeek – ‘sottoposto alla Sharia’.

Qui nessuno, anche se non islamico, può bere o mangiare in pubblico durante il mese di digiuno il Ramadan, le donne sono ‘invitate’ a indossare il velo e a non portare i tacchi. Bere alcool e ascoltare musica sono attività non gradite. Agli angoli della strada un cartello giallo con scritta nera avverte che ci si trova in una ‘Sharia controlled zone’. E più di una volta i giovani che vivono in questa zona hanno accolto con un lancio serrato di pietre le autovetture della polizia. Oltre Molenbeek a Bruxelles svetta Kuregem, un distretto di Anderlecht dove spesso la polizia e gli assistenti sociali non osano neppure a entrare. Da non dimenticare ‘Sharia4Belgium’, gruppo islamico radicale ritenuto il principale reclutatore di combattenti per la jihad in Siria. Nel settembre 2014 viene aperto ad Anversa un processo contro 46 presunti membri del gruppo si era sciolto nel 2012. Ma gli inquirenti ritengono che i suoi ex membri abbiano reclutato circa il 10% dei 300-400 belgi partiti per la Siria gravitava attorno al gruppo salafita. OLANDA: L’Olanda, di aree urbane off-limits, ne ha una lista di 40 zone.

Il ‘problema numero uno’, è il distretto di Kolenkit, ad Amsterdam. Quindi, i quartieri di Pendrecht, Het Oude Noorden e Bloemhof di Rotterdam. Utrecht deve fare i conti con la zona di Ondiep. Nella capitale, l’Aia, il distretto di Schilderswijk è chiamata addirittura ‘sharia wijk’, dove aveva base il gruppo Hofstadt, che ha pianificato l’assassinio del regista Theo van Gogh. DANIMARCA: Anche la Danimarca come un pò tutti i Paesi scandinavi deve fare i conti con il jihadismo diffuso. La capitale Copenaghen la zona ‘ controllata dalla Shariya’ è il sobborgo di Tingbjerg SVEZIA: In Svezia, la città più islamizzata è Malmo a sud proprio davanti a Copenaghen con il 30% della popolazione di fede musulmana. Il quartiere ghetto è per eccellenza Rosengaard, abitato da soli migranti e tappezzato da poster con scritto: ‘Nel 2030 prendiamo il controllo’. GERMANIA: La Germania che ospita un gran numero di migranti, non è stata toccata in modo grave dal terrorismo jihadista. Nella capitale Berlino esiste a Neukolln, uno dei più grande quartieri musulmani che viene chiamato, ‘la provincia ottomana’.

Di recente la polizia tedesca ha compiuto un raid a Neukolln per sventare i piani dell’Isis. Dopo gli attentati di New York dell’11 settembre, venne scoperta la cosiddetta ‘cellula ambueghese’. Mohamed Atta e altri dei suoi 19 compagni implicati nell’attacco al Pentagono e alle due torri venivano dalla città anseatica. SPAGNA: Più che di quartieri in Spagna bisogna parlare di una intera regione chiamata ‘Xarq al Andalus’; ovvero il Levante Spagnolo, i territori che furono occupati dai conquistatori musulmani per quasi 5 secoli. In Spagna fu il debutto in Europa dei jihadisti: nel marzo 2004 infatti in un attacco su grande scala persero la vita a Madrid circa 200 e altre 2.000 furono ferite. I jihadisti credono ancora che ‘Al Andalus’, (il nome arabo di questi territori) persa dalle riconqusite cristiane appartenga di diritto al Califfato Islamico. Negli ultimi dieci anni, le forze di sicurezza spagnole hanno arrestato 568 jihadisti in 124 operazioni separate.

Egli ha detto che ‘le costanti azioni giudiziarie e di polizia’ aiutano le autorità spagnole a prevenire un altro attacco terroristico su larga scala simile agli attentati Le autorità di Madrid stimano in oltre 70 i jihadisti spagnoli partiti all’estero. Secondo l’esperta di terrorismo Soren Kren, ‘decine’ di jihadisti stanno entrando in Spagna dalla vicina Francia, dove ‘si sentono soffocati’ a causa del giro di vite del governo dopo gli attentati di Parigi. Attualmente, sono almeno 50.000 i convertiti musulmani che vivono in Spagna. La polizia dice che essi sono particolarmente vulnerabili alla radicalizzazione perché subiscono crescenti pressioni da parte degli islamisti che gli chiedono di compiere attacchi per ‘dimostrare il loro impegno’ nella nuova fede.

Di certo, gli jihadisti hanno preso di mira alcune città d’Europa, infatti, un terrorista islamico di Al Qaeda tramite un minaccioso messaggio video messo in rete riferisce: ‘Colpiremo Roma…Napoli…Madrid. Le esplosioni saranno ovunque’. Inoltre, c’è da dire che la direttrice del Site, Rita Katz aveva avvertito dell’esistenza di un altro video divulgato nel web dove si nota e si sente il terrorista Abu Baseer al Bumbari reso libero dal Mali in cambio del prigioniero francese Serge Lazarevic, esortare ad attaccare la Francia. Proclami da non sottovalutare dato che le città europee già minacciate sono poi state puntualmente colpite. Piccola nota: il papa è stato invitato a visitare la moschea di Roma (forse vi si recherà il 10 aprile ma ancora non è una data ufficiale). La moschea più grande di Roma è quella del personale diplomatico e dell’élite musulmana. Negli anni ’70 il re saudita Faisal e re Baldovino del Belgio avevano instaurato ottimi rapporti, e da questi rapporti scaturì la progressiva e inesorabile islamizzazione del Belgio. Anche il pontefice di uno stato come il Vaticano può essere considerato un monarca, perché a capo di un intero stato: lo stato simbolo della cristianità. Sarà un invito disinteressato? Oppure dopo questo il papa potrebbe cominciare a seguire l’esempio di re Baldovino con conseguenze del tutto diverse e inaspettate? L’esperienza suggerirebbe di imparare dalla storia tenendo conto degli errori altrui.

Fonti:

askanews.it

Il Sole 24 ore

CINZIA PALMACCI