Da Infolampo: Voucher . eguaglianza
Percettori di voucher, l’identikit dell’Inps
Secondo l’istituto, dal 2008 al 2015 è diminuita costantemente l’età media (da 60 a 36 anni), così come la percentuale di uomini, dall’80% a meno del 50%, mentre le donne pagate con buoni lavoro conquistano prepotentemente la maggioranza (circa il 57%)
di Lisa Bartoli
“Nel continuo ondeggiare dei dati sui voucher, forniti dall’Inps, che a seconda di chi li elabora, li legge e poi li interpreta, condizionando i pareri pro o contro l’uso di questo strumento, resta il fatto inconfutabile di come l’esplosione delle vendite dei cosiddetti buoni lavoro abbia profondamente drogato i dati sull’occupazione”. Morena Piccinini, presidente Inca, rilegge gli ultimi dati statistici forniti dall’Inps, in risposta alla richiesta del segretario generale della Cgil.
“Si è arrivati quasi a sostituire altre forme contrattuali di lavoro e ad accelerare, anziché diminuire, il fenomeno del sommerso – prosegue Piccinini, che annuncia per il 28 febbraio un suo dossier sulle ricadute previdenziali dei buoni lavoro –, coinvolgendo un numero sempre crescente di giovani e donne, alla ricerca disperata di una stabilità. E l’ultimo dossier Inps sull’argomento, per quanti sforzi lessicali faccia, non riesce a negare questa evidenza”.
Più di tutti, saltano agli occhi i dati legati all’età e al genere dei lavoratori pagati con i ticket. Secondo il dossier Inps, dal 2008 al 2015 è diminuita costantemente l’età media (da 60 a 36 anni), così come la percentuale di uomini: erano l’80% nel 2008, sono scesi sotto il 50% nel 2015; mentre le donne pagate con voucher conquistano prepotentemente la maggioranza (circa il 57%). Nel 2003, anno in cui sono stati istituiti in via sperimentale per pagare “lavoretti”, i percettori di voucher erano appena 25 mila (contro il milione e 400 mila del 2016) e l’età media dei percettori sfiorava i 65 anni.
Tra il 2008 e il 2015, mediamente, ogni percettore di voucher ha riscosso circa 60 voucher l’anno, per un reddito netto di 450 euro, e la quasi totalità dei lavoratori (quattro su cinque) ha avuto un solo committente nell’anno. In particolare, nel 2015, l’81% era in questa condizione, mentre il 14% risultava aver lavorato per due committenti; il restante 5% per tre o più datori di lavoro. Una tendenza che, evidentemente, ha seguito le linee evolutive della normativa del lavoro accessorio, con la quale è stata estesa l’applicazione in modo indistinto a tutti i settori produttivi. Nel 2008, infatti, i voucher apparivano sostanzialmente “uno strumento per vecchi” (la definizione è dello stesso Inps). Nel 2011, invece, il
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L’eguaglianza fa bene alla concorrenza e la concorrenza fa bene all’eguaglianza
E’ difficile mettere in dubbio che l’eguaglianza delle condizioni di partenza faccia bene alla concorrenza.
Pensiamo alle competizioni sportive: uno squilibrio eccessivo tra i partecipanti, in termini di risorse economiche etalenti, riduce non soltanto gli spazi per un confronto vero ma lo stesso interesse sportivo e di mercato. Che noia, le partite e i campionati dei quali si conosce già in anticipo il vincitore!!
di Andrea Pezzoli
Di qui i tentativi, in realtà solo parzialmente efficaci, per agevolare l’accesso alle risorse delle squadre meno ricche. Nel calcio europeo il mutualismo si traduce soprattutto in una redistribuzione progressiva delle risorse garantite dalla principale fonte di finanziamento, la vendita collettiva dei diritti tv. Permangono tuttavia squilibri, anche marcati.
Nel basket e nel baseball statunitense l’esigenza di un level playing field si concretizza nel tentativo di introdurre e monitorare il rispetto dei tetti salariali (salary cap) e nel meccanismo del cookie raft, una sorta di “bim-bum-bam” dovele squadre più povere beneficiano della possibilità di scegliere per prime i migliori talenti dei campionati non professionistici. Ancora di più, la “riduzione delle diseguaglianze” si ricerca con l’abolizione delle retrocessioni, delle promozioni dalle serie inferiori e con la formazione di Leghe chiuse e non inclusive.
Dal mondo dello sport, dunque, vengono suggerimenti interessanti non soltanto sulle relazioni ma anche sulle contraddizioni tra eguaglianza e competizione. Le contraddizioni nascono, soprattutto, dal mancato livellamento delle condizioni di partenza cosicché circoscrivere il confronto ai soli soggetti già sostanzialmente omogenesi traduce inevitabilmente anche in esclusioni basate non sui meriti ma più prosaicamente sulle risorse economiche. Addio favola del Chievo! Anche se occorre chiedersi in che misura il Chievo possa costituire una minaccia concorrenziale per la Juventus. E la risposta potrebbe trovarsi nella vittoria del Leicester in Premier League, dove militano i ben più ricchi Chelsea e Manchester United…
Si potrebbe continuare con le metafore calcistiche ma la questione più interessante è l’assai meno immediata relazione tra concorrenza e eguaglianza che porta a riflettere sul ruolo che l’autorità antitrust può svolgere per ridurre le diseguaglianze, restando, però, un’istituzione indipendente e non ancillare a politiche economiche legittimamente legate alle diverse maggioranze di governo.
Va da sé che per affrontare il crescere delle diseguaglianze c’è bisogno di una pluralità di politiche pubbliche: fisco, welfare, istruzione, salute(cfr. M. Franzini e M. Pianta, Diseguaglianze. Laterza, 2016 e Oecd, Focus on Inequality and Growth, 2014). Tra queste può senz’altro essere inclusa la promozione della concorrenza.
Un numero sempre più ampio di contributi accademici, e non, negli anni più recenti mira a sottolineare l’impatto potenzialmente progressivo della promozione della concorrenza sull’eguaglianza fino ad auspicare una maggiore sensibilità nell’applicazione delle regole antitrust anche per gli aspetti distributivi (cfr. J. Stiglitz, The Price of Inequality. Norton&Company, 2012; L. Zingales, A Capitalism for the People, Basic Book, 2012; J.B. Baker e S.C. Salop, Antitrust, Competition Policy, and Inequality, The Georgetown Law Journal, 2015; American Antitrust Institute, A National Competition Policy, 2016). Le evidenze sono particolarmente robuste per i Paesi più poveri dove l’introduzione della concorrenza si coniuga più direttamente con una maggiore crescita e con l’erosione delle rendite, soprattutto fondiarie e immobiliari (World Bank, Breaking down barriers: Unlocking Africa’s Potential through Vigorous Competition Policy, 2016).
In via preliminare è bene chiarire, seppur schematicamente, la differenza tra la politica per la concorrenza e l’applicazione della disciplina antitrust. La prima rientra nelle competenze del governo, è una “politica” e,come tale, assolutamente libera nei fini. Saranno gli elettori a valutarla e apprezzarla con il loro voto.
L’applicazione del diritto antitrust gode invece di spazi di discrezionalità assai più limitati, in quanto di competenza di un’autorità indipendente che per legge tutela, seppur indirettamente, il benessere dei consumatori e non può distinguere tra diverse categorie di essi. (cfr. le osservazioni di G. Amato nella Tavola Rotonda sul contributo di Baker e Salop in Mercato, Concorrenza e Regole, 2016).
Ciononostante anche l’applicazione della disciplina antitrust può incidere sensibilmente sulla diseguaglianza e la distribuzione del reddito.
In primo luogo, incide nella misura in cui riduce le rendite e combatte il potere di mercato ottenuto per
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