Da Infolampo: Figli di migranti …. – Lo sfruttamento delle donne cinesi in Italia
Figli di migranti, dalla Corte Ue passo indietro di 60 anni
La sentenza, che riguarda il Regno Unito, stabilisce che uno Stato membro dell’Unione può negare gli
assegni familiari e il credito d’imposta per i minori a carico ai cittadini europei che non dispongano di
un diritto di soggiorno
di Carlo Caldarini
Nei giorni scorsi, mentre gli occhi di tutti gli analisti erano puntati sul referendum britannico che, di lì a
poco, avrebbe portato al disastroso risultato che oggi tutti conosciamo, la Corte di giustizia europea ha
stabilito che uno Stato membro – e nella fattispecie proprio il
Regno Unito – può negare gli assegni familiari e il credito
d’imposta per i figli a carico ai cittadini dell’Ue che non
dispongano di un diritto di soggiorno in tale Stato.
Secondo la Corte, sebbene tale condizione sia effettivamente “una
discriminazione indiretta”, essa è comunque giustificata dalla
necessità di “proteggere le finanze dello Stato membro ospitante”.
L’Ue ha impiegato 60 anni a sviluppare una rete di sicurezza
sociale per i bambini. E fino a una settimana fa, i figli di cittadini
migranti avevano esattamente gli stessi diritti previdenziali dei
figli dei cittadini nazionali.
Il regolamento sul coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale,
la cui ultima versione è stata codificata dal Regolamento europeo
883 del 2004, stabilisce una serie di principii comuni che devono
essere rispettati dagli Stati membri, affinché alle persone che
esercitano il diritto di libera circolazione e di soggiorno all’interno dell’Unione non sia arrecato alcun
pregiudizio sul piano della previdenza sociale. Uno dei principii comuni che gli Stati membri devono
rispettare è quello di uguaglianza, che si traduce nel divieto di qualsiasi discriminazione in base alla
nazionalità.
La sentenza, riguardante la causa C-308/14 Commissione contro Regno Unito, ha invece stabilito che lo
Stato in questione è nel suo diritto quando discrimina indirettamente cittadini di altri Stati membri, sulla
base del fatto che il “diritto di soggiorno” può essere imposto come requisito necessario per accedere agli
assegni familiari e al credito d’imposta per i figli a carico, se questo “è opportuno per proteggere le
finanze pubbliche”. Il contenzioso nasce dal fatto che la Commissione ha ricevuto numerose denunce di
cittadini dell’Unione non britannici residenti nel Regno Unito, che si sono visti rifiutare dalle autorità
britanniche alcune prestazioni sociali, a motivo del fatto che essi non erano titolari di un “diritto di
soggiorno”.
La Commissione ha proposto un ricorso per inadempimento contro il Regno Unito, rilevando che la
normativa britannica impone di verificare che i richiedenti determinate prestazioni sociali – fra cui
Per saperne di più: Testo integrale (in italiano) della sentenza
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L’Aquila. Tra le ferite del
terremoto e la voglia di
rinascita del centro storico
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Lo sfruttamento delle donne cinesi in Italia
La cooperativa Be Free racconta l’immigrazione irregolare delle donne cinesi in Italia, un fenomeno
dimenticato dai media, di cui sappiamo ancora troppo poco
di Be Free
Quella cinese è un’immigrazione con caratteristiche tutte particolari, spesso poco conosciute[1]. Anche le
donne cinesi irregolari come le donne nigeriane sono spesso vittime di sfruttamento lavorativo e sessuale.
Il contrasto e la prevenzione dello sfruttamento può̀ avvenire non solo attraverso lo studio delle rotte (la
maggior parte delle donne vittime di sfruttamento lavorativo o della prostituzione arriva in Italia in aereo
contattando degli “strozzini” che pagano il biglietto e si occupano dei visti di ingresso) ma anche
attraverso l’analisi degli annunci online e delle modalità̀ di sfruttamento direttamente in Italia.
È stato facile trovare una persona per i documenti. Tu non puoi fare domande, devi dargli i soldi e basta.
L’ho chiamato per telefono, e ci siamo dati un appuntamento, a TianJin. All’incontro c’erano un uomo e
una donna: non c’è distinzione di genere in questa cosa. Ormai sono tantissimi i cinesi che lasciano la
Cina. (H.H., intervistata nel marzo 2015).
I migranti cinesi in Italia provengono per la maggior parte dalla provincia del Zhejiang e del Fujian nel
sud est della Cina. Grazie all’emigrazione e alle rimesse di coloro che sono partiti, il Zhejiang è cambiato
molto e oggi si presenta come una delle province più ricche della Cina. Per questo motivo negli ultimi
anni i cinesi che partono e decidono di intraprendere il viaggio provengono anche da altre regioni del nord
come il Liaoning e lo Shangdong. I cinesi che partono per andare a lavorare nelle fabbriche sono in
prevalenza donne ma in generale gli uomini rappresentano la maggioranza dei migranti cinesi in Italia. Le
donne cinesi provengono dalle campagne, quelle che decidono di lasciare la Cina hanno di solito più di
trent’anni e spesso hanno dei figli che lasciano ai nonni.
Lasciare le campagne per andare a lavorare altrove è una pratica molto comune in Cina dove si contano
circa centocinquanta milioni di lavoratori migranti. Nelle grandi metropoli come Pechino e Shanghai un
quarto della popolazione è composta da lavoratori migranti. Nelle città industriali della Cina meridionale
sono la struttura di quelle catene di montaggio che mandano avanti l’economia d’esportazione del paese.
Rappresentano nel loro complesso la più grande migrazione della storia dell’umanità̀, tre volte il numero
degli emigranti partiti dall’Europa verso l’America in un secolo.[2]
L’offerta è diretta soprattutto a donne molto giovani, spesso sono ragazze minorenni che si trovavano
nelle catene di montaggio delle fabbriche cinesi, dove però c’è una grande mobilità e con gli anni ci sono
possibilità̀ di “fare carriera”. In questo caso lasciare il proprio villaggio rappresenta l’unico modo per
cercare fortuna e sperare in un futuro diverso da quello dei propri genitori, contadini. Per questa richiesta
di manodopera giovane e con la crisi che ha portato alla chiusura di molte fabbriche in Cina, donne cinesi
dai trent’anni in su sono partite dalla metà degli anni novanta a cercare fortuna all’estero.
I motivi che spingono una donna cinese a lasciare il proprio paese possono essere numerosi. Un familiare
malato per esempio può̀ mandare sul lastrico una intera famiglia, o crescere un figlio da sola può essere
un motivo che spinge una donna a partire o semplicemente perché́ nel proprio villaggio o cittadina hanno
sentito parlare di persone che hanno fatto fortuna in Italia.
Siamo cinque figli, di cui io la più̀ piccola. I miei genitori hanno divorziato quando avevo tre mesi, mia
madre ha trovato un altro marito e mio padre non si occupava di noi. A otto anni mia madre è morta. Mio
padre si è risposato. Ho studiato per tre anni, poi a 17 sono andata in fabbrica a lavorare. A 19 anni mi
sono sposata. Mio marito faceva il meccanico. Abbiamo avuto una figlia, ma dopo alcuni anni c’erano
continui litigi, quindi me ne sono andata a Pechino a lavorare; dopo tre anni ci siamo separati e io ho
mantenuto mia figlia da sola. Mia figlia era rimasta in campagna coi nonni paterni. Ha studiato economia
all’Università̀, e ora lavora in banca. Mia figlia ha 24 anni. Lei mi dice sempre di tornare, io le rispondo
che in Italia si sta bene, ma in realtà̀ non sto affatto bene. L’ho fatto per mia figlia, e anche per me. I
cinesi sono molto tradizionalisti, per i matrimoni, il corredo, e io volevo dare queste cose a mia figlia.
(H.H., intervistata nel marzo 2015).
Spesso il livello culturale di chi lascia la Cina è molto basso, oggi le giovani hanno un livello di istruzione
maggiore e preferiscono tentare fortuna nel paese che attualmente offre maggiori opportunità della
“vecchia Europa”. Il sentito dire più̀ comune è che in Italia per lavorare in fabbrica si guadagna circa
1.000 Euro al mese, non si immaginano le condizioni delle fabbriche stesse, né sono al corrente del
problema del permesso di soggiorno. Molte donne credono che pagando la somma iniziale avranno tutti i
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