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Da Infolampo: Ape – scuola

ape-social-non-si-potra-continuare-a-lavorareApe sociale, è partita la corsa a ostacoli

Colombini (Inca) a RadioArticolo1: “Siamo appesi a un filo. Le domande per accedere alla pensione

anticipata dovrebbero partire tra pochi giorni, ma il decreto ancora non c’è”. Al via una campagna del

patronato Cgil per informare i lavoratori

“Siamo appesi a un filo. Dal

ministero del Lavoro continuano a

rassicurarci che a giorni saranno

disponibili le domande per accedere

all’Ape sociale. Una misura che,

insieme a quella per i lavoratori

precoci, consentirà di andare in

pensione anticipata senza nessun

onere. Ma il decreto non è ancora

uscito in Gazzetta Ufficiale e dunque

l’Inps non può emettere le circolari

operative, né attivare la procedura

online”. A dirlo è Fulvia Colombini,

del collegio di presidenza dell’Inca, ai

microfoni di RadioArticolo1. “Certo è

che se ci fossero dei ritardi – osserva

–, non sarebbero ascrivibili al sistema

del patronato, bensì a ministero e

governo. Da un lato le numerose

categorie che potrebbero averne il

diritto, dall’altro i 300 milioni

contingentati dal governo, rendono

questa una corsa a ostacoli”.

L’Ape sociale è una misura sostenuta

dalla Cgil al tavolo con il governo,

ottenuta lo scorso 29 settembre in un

verbale di sintesi. “È un ottimo accompagnamento alla pensione – spiega la dirigente del patronato –

perché garantisce un assegno fino a 1.500 euro mensili per 15 mesi. Il requisito per l’età è compiere i 63

anni nel corso di quest’anno. Oppure, si può accedere se si è disoccupati e senza ammortizzatori sociali da

almeno tre mesi; si svolge assistenza da almeno 6 mesi per conviventi con grave handicap; si è invalidi

civili di almeno il 74% e si hanno 30 anni di contributi”.

Vedi anche: Pensioni: Ghiselli (Cgil), il 4 maggio porteremo al governo le proposte per i giovani

Leggi tutto: http://www.rassegna.it/articoli/ape-sociale-e-partita-la-corsa-a-ostacoli

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La scuola italiana e il divario tra “ricchi” e “poveri”

Si può pretendere dai giornali e dai mass media una presentazione fedele ed accurata dei risultati

raggiunti da studi di una qualche complessità? E se questo non si può pretendere, si può almeno chiedere

di lasciare spazio a parole di dubbio nel presentare la propria interpretazione di quello che emergerebbe

da quegli studi? Domande come queste sono venute alla mente nei giorni scorsi leggendo quello che si è

riusciti a dire e a scrivere a proposito di uno studio dell’OCSE sulle competenze dei giovani e sul ruolo

della scuola nel limitare gli effetti delle origini familiari su quelle competenze. Infatti, si è scritto che in

Italia la scuola “colmerebbe il divario tra i ricchi e i poveri”, cioè sarebbe un perfetto strumento di

realizzazione della tanto agognata eguaglianza delle opportunità. Purtroppo, neanche inforcando il paio

di occhiali più deformanti si può leggere sulle righe e tra le righe dello studio dell’OCSE una

conclusione di questa natura. E vediamo perché.

di Maurizio Franzini e Michele Raitano

Lo studio dell’OCSE mette a confronto i risultati di due indagini di rilevazione delle competenze (non

nozionistiche) degli intervistati realizzate dallo stesso OCSE, la PISA (Programme for International

Student Assessment), condotta periodicamente a partire dal 2000 su un campione di quindicenni, e la

PIAAC (Programme for the International Assessment of Adult Competencies) condotta nel 2012 su un

campione di individui di età compresa fra i 16 e i 65 anni. Da queste indagini, lo studio estrae le

informazioni relative alle competenze nella literacy (la capacità di comprensione di un testo scritto) e

nella numeracy (la capacità di calcolo e ragionamento matematico/scientifico) dei soli nati nel 1985. Tali

informazioni sono quelle rilevate dall’indagine PISA nel 2000 (quindi rispetto ai quindicenni di allora,

che frequentavano la scuola media superiore) e dalla PIAAC nel 2012 (quando gli intervistati avevano 27

anni ed erano nelle prime fasi della loro carriera lavorativa o in quelle finali del percorso universitario).

Un punto da sottolineare è che i giovani le cui competenze sono state rilevate nel 2012 non sono gli stessi

sottoposti a test nel 2000: ciò che i due insiemi di giovani hanno in comune è soltanto l’anno di nascita.

Quindi parliamo di un confronto tra individui diversi (che condividono soltanto l’anno di nascita) e che

riguarda un insieme specifico di competenze – non gli esiti formativi, né tanto meno la loro collocazione

sul mercato del lavoro. Nulla più di questo, che è davvero troppo poco per desumere qualcosa sugli effetti

che la scuola ha sulle competenze dei giovani o, a maggior ragione, sul divario tra ricchi e poveri. Ma lo

studio dell’OCSE permette, almeno, di affermare che è stato colmato il divario nelle competenze (di

literacy e eventualmente di numeracy) tra (approssimativamente) i figli dei ricchi e i figli dei poveri?

Anzitutto va ricordato che per rappresentare le diverse origini familiari, lo studio utilizza indicatori ben

poco raffinati. Infatti, gli studenti sono considerati avvantaggiati o svantaggiati a seconda che abbiano o

meno almeno un genitore laureato o che vivano o meno in case nelle cui librerie sono allineati almeno

100 libri. La misura del divario di competenze fra i due gruppi di avvantaggiati e svantaggiati così definiti

non è poi calcolata con tecniche che consentano di tenere conto di alcuni fattori da cui questi divari

possono essere determinati (ad esempio, il tipo di scuola frequentata o la regione di residenza), ma è

basata sulla semplice differenza delle competenze medie di chi appartiene ai due gruppi, rilevate nel

campione del 2000 e in quello del 2012.

L’indagine del 2000 porta alla conclusione che in Italia gli studenti svantaggiati mostrano competenze di

literacy peggiori rispetto agli avvantaggiati e l’indicatore di questo effetto negativo del background

familiare assume il valore stimato di 0,45. Nella media dei paesi dell’OCSE questo valore è invece

leggermente superiore: 0.48. Sfortunatamente lo studio fornisce questa stima soltanto per le competenze

di literacy; per quelle di numeracy si limita a fornire dati, distinti per paese, sulle sole differenze di genere

e non di background familiare.

Se ci si vuole entusiasmare per la performance italiana la base lo studio dell’OCSE non offre altro che

questo: un divario nelle competenze di literacy dei quindicenni del 2000, provenienti da background

diversi nel senso che è stato chiarito, inferiore (di molto poco) a quello medio dei paesi OCSE – anche se,

si potrebbe aggiungere, pur sempre consistente. Occorre un uso non parsimonioso dell’arte

dell’approssimazione per parlare di “divario colmato tra ricchi e poveri”.

E una discreta propensione a tollerare le approssimazioni occorre anche per affermare, come ha fatto la

Ministra Fedeli, che “I dati ci dicono che la scuola italiana è una scuola inclusiva: fra le nostre e i nostri

quindicenni le differenze socio-economiche di partenza pesano meno che in altri Paesi». Siamo di fronte a

un’approssimazione per diversi motivi: perché basarsi solo sulle competenze di literacy per parlare di

scuola inclusiva (senza, peraltro, distinguere il tipo di scuola superiore frequentata) è, appunto,

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