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infolampo: lavoro – impresa

Se il lavoro si paga con la vita
Morti e infortuni crescono soprattutto al Nord e coinvolgono lavoratori con età anagrafica sempre più
elevata. In aumento anche le malattie professionali. Per completare il quadro: poca formazione,
macchinari vetusti e ispettori al lumicino
di Giorgio Frasca Polara
I morti sul luogo di lavoro diminuiscono dove maggiore è la disoccupazione. Ovvero, la piccola ripresa
porta con sé un aumento dei pericoli e degli incidenti. Lo documenta quell’Open Data dell’Inail che ha
certificato la crescita delle morti bianche a livello nazionale
nel primo trimestre di quest’anno rispetto allo stesso periodo
del 2017: 212 morti, 22 in più pari ad un aumento
dell’11,6%. Tra i motivi dell’incremento registrato tra il
2016 e il 2017, l’Inail segnala i cosiddetti incidenti plurimi,
cioè disastri che hanno provocato la morte di almeno due
lavoratori contemporaneamente. L’anno scorso si sono
infatti verificati ben 13 incidenti plurimi rispetto ai 6
avvenuti nel 2016.
In particolare le morti sono aumentate nel Nord-Ovest (19 in
più), nel Nord-Est (+10) e al Centro (+7), mentre si registra
una diminuzione nel Sud (-9) e nelle Isole (-5). A livello
regionale spiccano le 15 denunce in meno dell’Abruzzo (da
19 a 4) e i sei casi mortali in meno in Sicilia (da 18 a 12).
Nel complesso l’Istat registra una flessione delle morti
bianche da 44 a 31 (-29,5%) nel Sud. L’aumento maggiore dei casi mortali si registra nei settori
dell’agricoltura (da 133 a 141, +6%) e dell’industria e dei servizi (da 841 a 857, +1,9%).
Una morte su due ha coinvolto lavoratori di età compresa tra i 50 e i 64 anni, con un incremento di 29 casi
(+35%). In diminuzione sono invece le denunce per i lavoratori sino a 34 anni (da 32 a 25) e per quelli tra
i 45 e i 49 anni: da 26 a 17. Aumentano nel trimestre anche le denunce di malattie professionali: 16.124,
pari a 877 casi in più (+5,8%).
Tra le cause dell’allarmante situazione non c’è solo la precarietà del lavoro cui si lega l’assenza
sostanziale di formazione professionale, ma anche l’invecchiamento dei macchinari. L’associazione dei
costruttori (Ucimu) aveva segnalato già nel 2016 in un report alla Camera dei deputati che “il parco
macchine è molto più vecchio di quello di dieci anni fa, e l’età media è la più alta mai registrata da
quarant’anni a questa parte”. D’altra parte c’è una impressionante carenza di investimenti da parte dello
Stato in controlli e prevenzione dovuta al blocco delle assunzioni. A controllare 4,4 milioni di imprese
provvedono solo 3.500 persone di cui 2.800 ispettori delle Asl (che nel 2008 erano 5.000), più 300
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Dal Parlamento

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La società a misura di impresa
L’immaginario collettivo degli ultimi decenni è stato costruito attorno al concetto che l’impresa sia il
soggetto sociale più importante e che lo Stato debba essere al suo servizio, con una stravagante
trasformazione di un mezzo in un fine. Ma questo modello di sviluppo ha ormai superato i confini di
accettabilità
di Roberto Schiattarella
Secondo D. Lane, un sistema sociale complesso ha bisogno di un immaginario condiviso per poter
rimanere stabile nel tempo; un immaginario capace di far convergere i comportamenti dei soggetti e le
scelte delle istituzioni nelle direzioni necessarie a rafforzare la struttura interna del sistema stesso.
L’affermazione che l’impresa sia il soggetto più importante al quale guardare per la creazione delle
condizioni di benessere di tutta la società può essere considerata uno tra i tasselli fondamentali intorno ai
quali si è costruito l’immaginario collettivo degli ultimi decenni e si sono poste le basi per il buon
funzionamento dell’attuale modello di sviluppo. Un tassello fondamentale ma anche un punto di snodo
dell’attuale visione dell’economia che riassume in sé tutta la forza ma anche la debolezza e le incerte
prospettive di questa cultura e di questo modo di organizzarsi della convivenza economica e civile. Un
punto di forza perché si tratta di un’affermazione che riavvicina il “senso comune” di chi opera sui
mercati alla teoria economica.
Dopo gli anni del keynesismo, con l’idea che ciò che va bene all’impresa va bene per tutti, la cultura del
mercato riesce a realizzare due cose: ritrova la sua “base sociale” e si riappropria della teoria economica,
definendo una visione dell’economia che da un lato si dà una veste scientifica, o in ogni caso, inserisce i
comportamenti, i valori e gli obiettivi che caratterizzano il funzionamento dei mercati in un contesto più
generale; dall’altro li trasforma in categorie di analisi e, in questo modo, finisce col renderli legittimi. Un
punto di debolezza perché si tratta di un’affermazione che esprime pur sempre il punto di vista di un
segmento della società. Fa emergere, in altre parole, il carattere di parte di questa lettura dell’economia; e
lo fa in maniera trasparente sia nel momento in cui fa coincidere l’interesse di una sezione della società, la
componente forte, con l’interesse generale, sia perché fa un’operazione palesemente stravagante:
l’inversione tra mezzi e fini. In questa lettura, infatti, l’impresa, cessa di essere uno strumento in mano alla
società per assicurare il benessere collettivo e si trasforma in un fine in sé. Lasciando indeterminato il
rapporto tra successo dell’impresa ed il benessere di tutti.
D’altra parte, ugualmente di parte è lo stesso processo logico attraverso il quale si arriva a far coincidere
gli interessi dell’impresa con quello generale. Un percorso pieno di ambiguità generate da scelte di lettura
non ovvie. A partire dal primo passo di questo percorso. Con la globalizzazione, l’estensione geografica
dei mercati e l’integrazione tra i sistemi produttivi sono trasformati in un vincolo per le politiche
nazionali. Un processo che ha certamente una componente tecnologica ma che è stato determinato ed
alimentato da scelte politiche fatte e, più in particolare, dall’insieme delle regole internazionali,
nell’immaginario collettivo viene invece raccontato (prima forzatura ideologica) come ineluttabile, come
uno degli aspetti costitutivi della modernità, dal quale i singoli paesi non solo non possono, ma
soprattutto, non devono escludersi. E questo perché è nel mondo globale che ogni sistema paese trova le
sue opportunità di crescita del reddito e del benessere (seconda forzatura ideologica che riduce il
benessere a reddito). Il solo compito di ogni paese deve essere quello di misurarsi con gli altri in una
logica di competizione (terza forzatura ideologica).
Nel mondo della competizione a cui l’immaginario fa riferimento, tutti i paesi sono uguali tra loro ed
hanno le stesse possibilità di vincere. Con una conseguenza: il sistema nazionale che non vince è
responsabile di questo insuccesso. O meglio, lo sono le imprese di quel paese; o meglio ancora, lo sono i
sistemi socio economici che non mettono le imprese in condizioni di vincere. Ogni dato strutturale è
dimenticato; la storia, i punti di partenza scompaiono. La competizione (tra disuguali) non è il modo in
cui i processi diventano cumulativi; è il modo invece in cui riescono ad emergere i più bravi. E in cui
l’insuccesso indica a tutti chi sono i meno bravi, i paesi che non sanno rispondere (nel loro insieme) alle
sfide della globalizzazione.
E’ un mondo in cui l’efficienza diventa il valore – obiettivo di riferimento per ogni collettività. Un
obiettivo che rende tutti gli altri valori subalterni al raggiungimento di una efficienza che è la sola arma
che una collettività ha per disporre delle risorse necessarie al conseguimento di altri obiettivi. Un valore
tanto condizionante quanto puramente evocativo quando riferito a sistemi socio economici (quarta
forzatura ideologica). In cui l’impresa non è vista come un organismo complesso ma solo come luogo per
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