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Infolampo: Paralisi – Europa

La paralisi no grazie E’ l’ora delle scelte. Dopo le promesse inattuabili e le trattative a somma zero occorre che il paese abbia finalmente un governo con cui anche le parti sociali, sindacati in testa, possano dialogare, confrontarsi, se necessario anche scontrarsi di Altero Frigerio Ci preoccupa e non poco l’aggravarsi della crisi dei partiti, vecchi e nuovi. Così come ci interroga, giorno dopo giorno, la crisi della politica, quella intesa come individuazione e soluzione dei problemi. E infine ci allarma la crisi istituzionale e democratica che stiamo vivendo come effetto della somma dei due precedenti fenomeni. Già Bersani nel 2013, quindi ben prima degli odierni Salvini e Di Maio, aveva scoperto la sera del voto di aver “quasi vinto” le elezioni ma non riuscì a formare un esecutivo perché – anche se non dovrebbe essere necessario ricordarlo – per costituire un governo servono programmi condivisi e maggioranze disposte ad attuarli. I leader di Lega e M5S hanno invece affrontato questi 60 giorni come fossero ad un talent e su un reality show: un po’ tronisti, un po’ improvvisatori, protagonisti di inconcludenti prove muscolari, tatticismi e scomuniche. Il sogno di mettere piede nella stanza dei bottoni di palazzo Chigi ha annebbiato ogni altro percorso per trovare una soluzione all’impasse determinata a una sballatissima legge elettorale, né maggioritaria né proporzionale. Tra doppi forni e formule bislacche si è macerata una situazione già al limite, ad aggravare la quale sono intervenuti i richiami aventiniani maturati nel campo della rappresentanza progressista che, incapace di riconoscere i propri errori e analizzare le cause della sconfitta, ha preferito isolarsi o al massimo giocare d’interdizione, nei fatti rinunciando ad alcun ruolo di una qualche rilevanza. Se questo è il quadro, la parola responsabilità acquista forza e necessità. Il Primo Maggio dal palco di Prato Susanna Camusso aveva lanciato l’allarme della Cgil: “Mi sembra che il Paese non si meriti il voto in autunno” aveva detto la leader di corso d’Italia aggiungendo che “Non ci si avvicina ai problemi del Paese continuando ad invocare il voto, servono cose concrete. Mi pare che ci sia una responsabilità che le forze politiche devono assumersi”.  Lo scudo dell’euro e della Bce ci mettono al riparo dalle turbolenze finanziarie che scuotono le Americhe, da New York fino a Buenos Aires. E tuttavia, pensare di ripiombare in altri sei mesi di campagna elettorale (dopo averne già trascorsi  Leggi tutto: http://www.radioarticolo1.it/articoli/2018/05/07/8305/la-paralisi-no-grazie   Le “schiave” romene dietro ai pomodori di Ragusa
Photo Credit: Louise Boyle – Kheel Center Leggi su . www voxeurop.eu/it
www.striscisrossa.it  I soldi ci sono. E se l’Europa li usasse? Partiamo da un bell’esempio di excusatio non petita. In un manualetto della Commissione UE dedicato alla confutazione dei luoghi comuni negativi sul bilancio dell’Unione si legge: non è vero che il quadro finanziario pluriennale (cioè le previsioni di bilancio relative agli anni a venire) sia “un altro esempio del cammino dell’Unione Europea verso una programmazione centralizzata dell’economia”. Giustissimo: non è vero. Ma quello che cercheremo di spiegare, sperando di riuscirci, è che invece sarebbe molto meglio che lo fosse. di Paolo Soldini Una “programmazione centralizzata dell’economia” è proprio quello cui le sinistre e le forze europeiste dovrebbero tendere se volessero davvero, come dicono, rovesciare la logica che ha portato l’austerity e il predominio dei mercati sulla politica che stanno facendo crescere in modo devastante le diseguaglianze nei paesi e tra i paesi dell’Unione e uccidendo la fede dei cittadini d’ogni paese nell’Europa. Si tratterebbe solo di rimettere la realtà sui piedi, partendo non dalla disciplina di bilancio (che è necessaria, ma posteriori e non a priori) e dalle risorse (che non sono così scarse come molti ci vogliono far credere). Proviamo a offrire qualche spunto a chi, a sinistra, volesse cimentarsi in questa rivoluzione copernicana. Nei giorni scorsi il commissario al Bilancio, il tedesco Günther Oettinger ha presentato la sua proposta per il bilancio pluriennale 2021 – 2027. Il progetto dovrà affrontare una serie di passaggi – Commissione nella sua collegialità, Consiglio dei ministri finanziari, Consiglio europeo, parlamento europeo, parlamenti nazionali – che sicuramente lo modificheranno e l’esperienza ci dice che le modifiche consisteranno in sostanziosi tagli. Ma prendiamolo così com’è. Il documento prevede impegni di spesa per 1135 miliardi di euro, che sembrano tantissimi soldi ma sono appena l’1,111 (per la precisione l’1,1 periodico) del reddito nazionale lordo di 27 paesi dell’Unione, cioè tutti meno la Gran Bretagna che allora sarà già fuori, mentre potrebbero (forse) essere entrati un paio di paesi dei Balcani occidentali. Proviamo ad immaginare la disponibilità che deriverebbe da un aumento, anche abbastanza contenuto, di quell’1 virgola 1. Un aumento realizzato come? Intanto razionalizzando il sistema delle cosiddette risorse proprie, ovvero le percentuali di IVA, di altre tasse e di dazi che ogni stato versa alle casse comunitarie, i contributi calcolati in relazione al PIL dei diversi stati più una serie infinita e complicatissima di gabelle (prelievi sulle entrate dagli scambi, dalle tasse sulle società, dagli imballaggi in plastica e via elencando). Si può capire che, specialmente di questi tempi, si possano avere molti scrupoli ad usare un’espressione come “tassa per l’Europa”, ma non dovrebbe essere impossibile introdurre un sistema di contribuzioni nazionali meno astruso di quello esistente, intanto, per cominciare, con un maggiore prelievo sull’IVA, oggi esercitato per lo 0,3 e per alcuni paesi per lo 0,5%. Attualmente i contributi dei paesi al bilancio comunitario “costano” circa 200 euro l’anno ad ogni cittadino europeo, ovvero una somma molto inferiore alla somma media degli esborsi per le tasse nazionali. Un piccolo riequilibrio non peserebbe sui bilanci delle famiglie, diminuirebbe di poco le entrate fiscali dei singoli stati ma aumenterebbe in maniera sensibile le entrate dell’Unione. Ma allora perché non lo si fa e non lo si è fatto finora e, anzi, ogni ipotesi di aumento del bilancio comunitario viene accolta come un’insopportabile provocazione non solo da paesi come la Germania, l’Olanda, la Gran Bretagna, la Finlandia, ma da tutti quelli che si dedicano al fatuo esercizio del calcolo vittimistico delle differenze “tra quanto versiamo e quanto riceviamo” (come se in quello che “riceviamo” non dovessero essere calcolati tutti i benefici di appartenere a un mercato unico)? La risposta è semplice: non lo si fa perché da molti anni tra le classi dirigenti europee domina una particolare concezione politico-ideologica. In termini nobili potremmo definirla come adesione al principio della sussidiarietà (le politiche europee cominciano dove quelle nazionali non arrivano), in termini più rozzi come tutela egoistica degli interessi nazionali immediati. Quelli che obbediscono al principio “i soldi sono miei e li gestisco io” e fanno da ostacolo insormontabile ad ogni cessione di sovranità finanziaria, anzi di sovranità tout-court, propensione assai diffusa di questi tempi un po’ dappertutto. La sinistra europea dovrebbe combattere molto più di quanto abbia fatto, almeno negli ultimi anni, questa tendenza. Compito non facile giacché la questione delle cessioni di sovranità si interseca malamente nell’attuale sistema dei poteri comunitari con quello della democrazia. Superato il livello nazionale, dove, come e quando si esercita il potere di controllo democratico sulle decisioni? Il problema fu posto con evidenza qualche anno fa dalla Corte Costituzionale tedesca, la quale bocciò una decisione sul fondo di garanzia presa dal governo di Berlino in ambito europeo perché, non essendo stata discussa dal  Leggi tutto: http://www.strisciarossa.it/i-soldi-ci-sono-e-se-leuropa-li-investisse-davvero/