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Infolampo: Sessismo – Sessantotto

Media e sessismo nello sport
Dallo sci al calcio: lo spazio dato alle atlete è inversamente proporzionale alle loro imprese sportive. E
spesso macchiato da stereotipi e voyeurismo. I dati dell’Osservatorio di Pavia su giornali e tv e il
mancato rispetto di regole non discriminatorie
di Silvia Garambois
Conto alla rovescia per le Olimpiadi 2018. Uno squadrone italiano con 120 atleti, e la Rai che dopo 8 anni
di “buio” (e figuracce) torna a trasmettere le gare invernali. Dopo gli ultimi successi da capogiro delle
nostre discesiste in coppa del mondo, poi, si sta a dita incrociate.
Già, la “valanga rosa”. Anche le Olimpiadi di Rio 2016 sono state
un’occasione importante per raccontare lo sport al femminile: le atlete
che partecipavano ai giochi erano numerose, il 44,2% su scala globale
e il 48% a livello nazionale. Quasi fifty-fifty. E sono arrivate anche le
medaglie. Peccato che poi…
“Supermamme con in mano un fucile” (Bacosi e Cainero), icone “di
stile e bellezza” come “la divina Pellegrini”, “sexy con ironia su
Instagram” come Voloshina o occasione per “rifarsi gli occhi con lo
spettacolo della ginnastica femminile”: ma vi pare il modo di parlare
di sport?
Un gruppo di ricercatori dell’Osservatorio di Pavia, guidato da Monia
Azzalini, si è messo a monitorare giornali e tv per capire se
l’informazione delle Olimpiadi aveva seguito regole non
discriminatorie, e il risultato è stato deludente: nonostante la presenza quasi paritaria di atlete e atleti, nei
tg il 34,7% del tempo è stato dedicato alle gare maschili, il 17,9% a quelle femminili (il resto erano
servizi generici sulle Olimpiadi); sui giornali il 52,5% dello spazio ai giochi maschili, il 24,7 a quelli
femminili.
La controprova di questa ricerca ce l’abbiamo sotto gli occhi anche in queste settimane: con la nazionale
di calcio maschile fuori dai giochi internazionali, sembra che il pallone sia stato messo in soffitta; che,
invece, la nazionale femminile quel pallone lo faccia girare e vada come un treno verso la qualificazione
ai mondiali è una notizia che resta ai margini.
Il sessismo nello sport viene esasperato dai media: stereotipi e voyeurismo. Tanto che giornali importanti
come l’inglese “The Guardian” hanno stilato per i propri giornalisti alcune regolette: 1) scrivete delle
atlete come scrivereste degli atleti; 2) non passate troppo tempo a parlare di trucco, visi imbronciati,
circonferenza delle cosce o stato civile; 3) non riferitevi alle donne in relazioni agli uomini con cui hanno
rapporti sessuali; 4) scrivete di genere sessuale solo quando è pertinente; 5) non parlate di ciò che queste
donne suscitano in voi a livello sessuale.
Semplice no? Eppure, nella rilettura di tg e giornali fatta dai ricercatori, da noi per le Olimpiadi di Rio
Leggi tutto: http://www.radioarticolo1.it/articoli/2018/01/30/8236/media-e-sessismo-nello-sport
Mai più fascismi. Parte
la campagna

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http://espresso.repubblica.it
Non date la colpa al ’68
Nella contestazione si confusero differenti umori e pulsioni. Ma non c’è alcun rapporto con gli anni
Ottanta e con i disastri dell’oggi
di Guido Crainz
Dimensione nazionale e internazionale si intrecciano ma forse è bene prendere avvio da realtà concrete,
evitando il rischio (sessantottino?) dell’ideologia. E per discutere realmente del nostro ’68, per
comprenderne coralità e impatto, non dovremmo dimenticare mai come era la scuola italiana alla sua
vigilia, nel vivo di una scolarizzazione di massa tumultuosa: gli studenti delle superiori erano il 10 per
cento di quella fascia di età nel 1951, quasi il 40 per cento nel 1967; gli universitari erano 230 mila nel
1958, 550 mila dieci anni dopo.
Una scolarizzazione di massa che avveniva in una fase di intensa circolazione internazionale di idee e
suggestioni, in contrasto stridente con una arretrata “cultura docente” molto diffusa: si vedano le
testimonianze di insegnanti raccolte allora da Marzio Barbagli e Marcello Dei (“Le vestali della classe
media”, da leggere assieme alla “Lettera” di don Milani). «Lo studente è un sacco vuoto da riempire,
dall’alto di una cattedra, di nozioni già confezionate»: lo scriveva nel 1966 il giornale dei giovani di
Azione cattolica, mentre provocava bufere e processi il giornalino del liceo Parini di Milano per
un’inchiesta su «quel che pensano le ragazze d’oggi». E il giudice inquirente chiedeva di sottoporre i suoi
autori a una umiliante visita medica in base ad una disposizione fascista sui reati dei minori.
La contestazione chiedeva più politica. Invece ha prodotto la crisi, più egoismo, la rabbia di oggi. Uno
storico apre il dibattito
In quello stesso periodo iniziavano ad estendersi le occupazioni delle Facoltà, a partire da Architettura, e
Camilla Cederna ne dava conto proprio su “L’Espresso”. «Sono stanchi di copiare il Partenone», titolava
nel febbraio del 1965, e non era solo una coloritura giornalistica: gli studenti chiedevano l’introduzione di
materie ancora ignorate dai piani di studio come Storia dell’architettura moderna e Urbanistica (in
un’Italia ormai invasa dalla speculazione edilizia). In un manifesto-simbolo del ’68, quello degli studenti
torinesi, vi è l’elenco dei “controcorsi” avviati nell’Università occupata, dedicati a temi ancora esclusi
dall’insegnamento: Filosofia delle scienze, Scuola e società, Pedagogia del dissenso, Psicoanalisi e
repressione sociale, Imperialismo e sviluppo sociale in America latina…
La critica del ’68 all’Università fu certo impietosa ma non era molto diversa l’analisi di un commentatore
come Alberto Ronchey, che pur chiedeva di «Offrire un’alternativa agli errori degli studenti». Ed
enumerava le ragioni di una crisi partendo da Roma: «60.000 studenti, 300 professori» (si riferisce ai
professori ordinari, detentori esclusivi di ogni potere: non era improprio definirli “baroni”). E poi: «La
seconda crisi riguarda gli uomini. Prima il professore era il re, adesso il re è nudo. La terza crisi discende
dall’insegnamento dispotico, elusivo o muto sui temi che interessano gli studenti»; e poi ancora «le
comunicazioni di massa, che rendono vicino ogni evento del mondo», «la rottura di linguaggio tra le
generazioni», la crisi dei «partiti, i rapporti fra Stato e società e civile (…). L’ultima generazione non vede
un disegno del tipo di società verso cui vogliamo andare» (“La Stampa”, 18 febbraio 1968). Poco dopo
Giorgio Bocca annotava: in pochi mesi «si è scoperto in modo clamoroso che la didattica di quasi tutte le
facoltà umanistiche e di molte facoltà scientifiche è inadeguata», e che dall’Università «escono dei
giovani incapaci di esercitare una professione».
Nel rapido dilagare del movimento studentesco differenti umori e pulsioni convissero e parvero quasi
fondersi (ha ragione Roberto Esposito): anticonformismo e impegno politico, laicizzazione e solidarismo
sociale, insofferenza per arretratezze anacronistiche e aspirazioni a profondi rivolgimenti, mentre la realtà
del Paese dava molti argomenti a chi vedeva in ogni ingiustizia una “ingiustizia di classe”. E
bisognerebbe ricordare la realtà delle fabbriche di allora, nell’intrecciarsi di forme di sfruttamento talora
brutali, discriminazioni inique, illibertà (solo nel 1970 lo Statuto dei lavoratori vi introdurrà la
Costituzione, come si disse): vedere “imborghesimento” in quegli operai è una licenza filosofica che non
condivido.
E’ vero che ha distrutto la vecchia politica, senza inaugurarne una nuova. Ma ha avuto un impatto
fortissimo sulle nostre forme di vita. Piuttosto che nel politico, il Sessantotto è confluito nel privato.
Replica a Giovanni Orsina
Certo, la coralità dei primi mesi iniziò progressivamente ad incrinarsi e la radicalizzazione ideologica
Leggi tutto: http://espresso.repubblica.it/visioni/2018/02/01/news/non-schiacciate-il-68-
1.317852?ref=HEF_RULLO