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Infolampo: Ricostruzione, – rappresentanza

Sotto le macerie. La ricostruzione post terremoto
La burocrazia ferma la ricostruzione. Un anno e mezzo dopo, l’80 per cento delle 2.667.000 tonnellate
di macerie non è stato ancora rimosso. Colpa di una burocrazia che rallenta tutto? Non solo. Ma
qualcosa si sta muovendo…
di Stefano Iucci
Si fa presto a dire macerie. Più difficile è immaginare davvero quello che vi si nasconde sotto: un intero
mondo, quello di chi non c’è più o di chi c’è, ma ha visto travolti pezzi della propria vita. Oggetti, ricordi,
mobili: un’esistenza, insomma. E così, nell’Italia centrale sconvolta dal sisma di un anno e mezzo fa –
quattro regioni, nove province, 1.250.000 persone coinvolte e 157.000 edifici lesionati – troppe macerie
stanno ancora là a ricordare quel che è stato e non sarà più.
Perché le macerie non vengono rimosse? A tanti mesi di
distanza, e nonostante un’accelerazione degli ultimi mesi che
mette un po’ di ottimismo, l’80 per cento delle 2.667.000 di
tonnellate di macerie prodotte dal terremoto non è stato ancora
rimosso. Com’è possibile? Solo a parziale spiegazione di questi
ritardi c’è da dire che gli interventi necessari sono molto
complessi. A cominciare dalle diverse competenze che
s’incrociano: da aprile 2017 la gestione delle macerie è materia
regionale; però la competenza nazionale per la rimozione è in
capo alla protezione civile, a differenza della ricostruzione che è
affidata al commissario straordinario. E poi non basta
rimuovere. Innanzitutto, bisogna separare i diversi tipi di
macerie secondo le tre tipologie individuate dalle norme: beni culturali vincolati, beni di valore
architettonico, tutto il resto senza alcun valore.
Poi naturalmente occorre isolare i materiali pericolosi, a partire dall’amianto, e quindi c’è il trasporto e lo
smaltimento, facendo di tutto per recuperare la maggiore quantità possibile di materiale inerte che può
essere recuperato in edilizia, così da non avere un impatto ambientale troppo forte. Tutto questo è vero:
ma non basta a giustificare la poca strada che si è finora percorsa.
Negli ultimi mesi si è consolidata una collaborazione sempre più stretta tra Legambiente e Fillea Cgil che
ha prodotto, tra l’altro, un importante osservatorio per una ricostruzione di qualità. «Senza il nostro
intervento – spiega Alessandro Genovesi, segretario generale della Fillea –, non avremmo avuto
l’assegnazione della rimozione alle varie agenzie regionali per la protezione ambientale e poi alle aziende
specializzate». La rimozione, per il sindacalista, «è la precondizione per la ricostruzione di qualità, per
riattivare i circuiti paesaggistici, per la pianificazione del territorio».
Ritardi intollerabili. Sul tema della ricostruzione però i ritardi restano intollerabili. Quali le cause?
Certamente non bisogna sottovalutare le difficoltà legate all’orografia degli impervi territori appenninici e
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Cgil, aumenta lavoro ‘mordi e
fuggi’. Servono investimenti
per occupazione stabile

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Una nuova rappresentanza per il sindacato di domani
Luciano Fasano, docente di Scienze politiche all’Università di Milano, ai microfoni d RadioArticolo1:
“Non illudiamoci che la disintermediazione tecnologica possa creare una democrazia migliore. Bisogna
immaginare nuovi percorsi di identità collettiva”
Quasi undici anni di crisi profondissima hanno accentuato diseguaglianze già presenti nel nostro paese.
Quasi 5 milioni di cittadini sono diventati poveri, 12 milioni non accedono alle cure del sistema sanitario
nazionale perché troppo care, e molti di loro sono lavoratori il cui salario è talmente basso da non
permettere una vita dignitosa. Frammentazione, polverizzazione e precarietà sono i termini che meglio
descrivono il mondo del lavoro attuale, mentre innovazione tecnologica, digitalizzazione dei processi
produttivi e algoritmi arrivano a mescolare ulteriormente le carte in tavola. “ La società italiana, al pari
delle altre società europee e forse con qualche elemento di fragilità in più per quanto riguarda i conti
pubblici, presenta non soltanto un incremento delle diseguaglianze, ma anche un progressivo
impoverimento del baricentro della società”. A dirlo ai microfoni di RadioArticolo1 è Luciano Fasano,
docente di Scienze politiche all’Università di Milano.
“L’impoverimento del ceto medio – continua Fasano – è rappresentato soprattutto dal fatto che le nuove
generazioni possiedono competenze e professionalità più elevate delle generazioni precedenti, ma vivono
in condizione di assenza di tutele. È un fenomeno rischiosissimo, sia per quanto riguarda le condizioni
economiche e sociali della parte centrale del baricentro della società, sia per quanto riguarda gli aspetti
legati alla disaffezione politica. Perché la parte centrale rappresenta il motore produttivo di un Paese,
eppure il sistema economico-imprenditoriale mette in atto un azzardo morale nei suoi confronti, con
concedendo diritti. Questo determina l’impoverimento del ceto medio e un allontanamento dalle
istituzioni democratiche della cittadinanza più attiva”.
Anche per questo l’astensionismo in Italia ha avuto negli ultimi anni una crescita esponenziale. “Da una
parte si tratta di un dato fisiologico in molti paesi con una consolidata tradizione democratica – afferma il
docente – ma d’altra parte siamo di fronte a un fenomeno preoccupante, perché si salda a un distacco dalla
politica, e soprattutto dalle forme di organizzazione della politica che cercano di trovare nelle istituzioni
della democrazia rappresentativa uno sbocco del voto. Questo ha delle conseguenze abbastanza evidenti
anche sul grado di legittimazione e sulla tenuta delle istituzioni democratiche”.
È evidente che in questo momento la rappresentanza sociale in Italia “vive una cattiva reputazione”,
perché nell’opinione pubblica “esiste l’idea che abbia rappresentato un elemento d’intralcio”. Ma la
democrazia è ancora fatta da due canali: “il canale della rappresentanza politica e democratica, e il canale
della rappresentanza degli interessi organizzati”.
Per Fasano, però, “non bisogna illudersi che la disintermediazione prodotta dall’avvento della rivoluzione
tecnologica possa creare una democrazia di qualità maggiore”. I processi della democrazia sono molto
complessi e “richiedono l’impegno e delle competenze di soggetti organizzati collettivi”. Oggi viviamo
“una crisi di entrambi i circuiti della rappresentanza, quello che passa dai partiti e quello che passa dai
sindacati”.
Bisogna quindi “ripensare profondamente la rappresentanza e tornare a costruire un’azione di
contrattazione da parte di un soggetto collettivo come il sindacato”. Questo, però, significa “trovare
un’identità diversa rispetto al passato, perché nel passato c’era il sostegno dell’identità politica e
ideologica”. Oggi, nella percezione dei cittadini queste identità non sono rilevanti, “allora si tratta di
immaginare percorsi di costruzione di nuovi campi di solidarietà e di nuove identità collettive che non
passino più attraverso il supporto di identità politiche tradizionalmente intese”.
È una sfida enorme per il sindacato, “ma che la Cgil ha già cominciato ad affrontare”. A dirlo è Gaetano
Sateriale, dell’area sviluppo della Cgil nazionale e responsabile del Piano del lavoro. “Perché – ha
affermato Sateriale – la crisi della rappresentanza sindacale deriva dal fatto che si è trasformato in maniera
radicale il lavoro e il sistema economico su cui erano cresciute le rappresentanze. Abbiamo già
cominciato a ragionare sopra queste trasformazioni e stiamo individuando dei filoni su cui muoverci”. Se
ne parlerà durante la prossima conferenza di programma della Cgil, “che sarà incentrata su come la
rivoluzione digitale cambi il lavoro e su come il sindacato possa continuare a tutelare i diritti e a
contrattare le condizioni di lavoro”. “Ma come sindacato – ha concluso -, dobbiamo tener conto anche
della crisi della rappresentanza della politica . Per questo stiamo parlando, e non è un caso, di una nuova
confederalità, proprio perché in qualche modo dobbiamo supplire a un’assenza di altri soggetti di
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